NUOVA LETTERA DI DOLCINO E MARGHERITA


Seconda lettera di Dolcino e Margherita
ai valsusini in lotta e ai loro sodali

Cari valligiani ribelli,
abbiamo deciso, percorrendo di nuovo quel sentiero scosceso che sospende il tempo storico, di tornare in vostra compagnia.

Abbiamo saputo delle varie iniziative che si sono svolte di recente, in molte parti d’Italia, per ricordare la nostra lotta e la nostra morte sul rogo, settecento anni or sono. Se tanta attenzione, dopo secoli di censure e calunnie, ci fa di certo piacere – in particolare durante quelle ore del giorno in cui forte si avverte la presenza del demone della malinconia –, dobbiamo nondimeno lamentare certi tentativi di appiattirci sulle innocue pagine culturali delle gazzette o di rinchiuderci nelle sale di un museo. Invero, non ci preoccupiamo granché di questi nuovi agguati, noi che sapemmo scamparne tanti altri. I nostri cuori vagabondi sono altrove, nei luoghi in cui si resiste, là dove la pratica invera e riattualizza il significato profondo, invariante, dei nostri sforzi.
Per questo, salutiamo calorosamente il vostro incontro di Venaus, dove per tre giorni parlerete di “streghe e banditi, eretici e contadini insorti e del filo che annoda le lotte di ieri a quelle di oggi”. E danzerete, coi suonatori delle vallate alpine, e berrete in allegria. E ci sarà chi baccaglia e chi si abbevera agli occhi di cerbiatto dell’amata.
Ne avete fatta di strada, montanari testardi, in quest’anno e mezzo. I vostri presìdi, le vostre affollate assemblee e le vostre barricate hanno portato un po’ ovunque folate del vento caldo della riscossa. Non c’è progetto di morte e di devastazione ambientale – si chiami base militare, inceneritore, rigassificatore, bretella autostradale o discarica – che non veda un raggruppamento umano levarsi in piedi per affermare: “Faremo come in Val di Susa”. L’esigenza era nell’aria da tanto, troppo tempo; ciò che mancava non erano né libri arguti né profonde analisi, ma la più semplice delle buone novelle: “Si può”.
Il nemico, com’era prevedibile, non è stato a guardare. Dopo gl’insulti e i colpi di manganello da destra, sono arrivate le lusinghe e le mercature da sinistra, menzognere le prime e truffaldine le seconde. Ma l’illusione di avere “governi amici” si è sciolta presto, come i ghiacciai sotto la pressione dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. Il dodecalogo del servile e sinistro camaleontismo – ché altro non erano i “dodici punti” del felsineo che vi governa – ha funzionato a rovescio, svelando a chiunque i trucchi della politica istituzionale. Ammainate le bandiere di partito dal presidio dei “pensionati combattenti” di Borgone, una nuova leggerezza ha dato ali alla lotta. A Vicenza, a Bolzano, a Bassano, a Serre, ad Aprilia… avete saputo unirvi con tante altre esperienze, riannodando i fili della solidarietà e dell’autorganizzazione.
Seme e frutto di tanti incontri è stato un bel patto di mutuo soccorso, nome antico per indicare una ritrovata tensione alla fratellanza. Un patto che vi ha spinto a occupare binari, noleggiare pullman, viaggiare tra valli e città, raccontare e imparare. Senza elaborare – felice intuizione! – alcun programma né creare alcuna struttura fissa con i suoi portavoce, i suoi altisonanti proclami, le sue ragionevoli proposte per “mettere ordine in un porcile”, come scrisse il poeta.
Unendovi in questo patto, voi siete riusciti là dove noi fallimmo, impediti dalle avverse condizioni del nostro tempo: nell’imboccare la strada che conduce alla generalizzazione della lotta. Noi morimmo fieri ma isolati, allora essendo il grosso della popolazione ancora integrato nei quadri del sistema feudale, che legava il contadino alla gleba e l’artigiano alla sua corporazione. Ben altro destino vi attende, in questo vostro tempo che, nel crepuscolo del mondo industriale, intravede la fine potenziale della civiltà del potere e della merce.
I tentativi di far entrare di soppiatto la politica della delega e del compromesso non sono mancati, né mancheranno. Da parte delle istituzioni locali non meno che dei cosiddetti movimenti. Il vecchio mondo è sempre in agguato. E ha strumenti assai potenti. In un giorno può far credere – nel suo universo di fantasmi – che si è infine raggiunto un accordo con la popolazione locale per spostare di qua o di là il percorso del funesto treno. Ma la bella e caotica serata di Bussoleno è lì a ribadire una verità troppo semplice e diretta, evidentemente, per le contorte e oblique menti di governanti e cortigiani: di qui non si passa.
In tanti vorrebbero strapparvi un programma. Nella sua semplicità, uno dei “programmi” più sensati lo ha formulato, in una battuta, un vostro attempato compaesano dialogando con un giovane sovversivo: “Sono in pensione. Per me ci sono solo l’orto e le lotte”. L’orto e le lotte… Se ci aggiungiamo la creatività e l’amore (a-mors: toglimento di morte), non vi sembra un bel progetto di vita?
Le campagne sono ormai ridotte a distese di capannoni industriali, ipermercati, multisale, elettrodotti, bretelle e svincoli autostradali, parcheggi e quant’altro, in un continuum di cemento e asfalto che unisce una città all’altra togliendo spazio alla vita, nello squallore sempreuguale di un hinterland senza fine. E il cibo è ormai qualcosa che spunta in modo misterioso e occhieggia luccicante sugli scaffali del supermercato. In un mondo simile, coltivarsi un orto è una boccata d’ossigeno e autonomia, una ripresa di contatto con la terra che ci nutre, l’allusione pratica a un’attività umana che usa consapevolmente e con grazia gli strumenti di cui abbisogna e custodisce il senso dei propri gesti. Un orto collettivo in un presidio, poi, disegna uno spazio antico e nuovo da abitare, fatto di tanti “SÌ” che crescono come teneri germogli al riparo di un grande “NO”.
“Agguati dell’avvenire”, così uno scrittore esule definiva gli spaventi. Forse, nei piccoli spazi di libertà strappata e coltivata si vive un diverso agguato del futuro: una promessa di felicità. Orti e lotte, dunque. Il radicamento e il viaggio. La cura del noto, la sperimentale apertura all’ignoto.
Alcuni secoli dopo la nostra dipartita capimmo assai meglio quale fosse stata la posta in gioco nella guerriglia che avevamo combattuto assieme ai rustici e ai montanari. La brutale repressione che seguì alla nostra sconfitta – prolungata da un violento e plurisecolare agitarsi di abiti talari, toghe e uniformi attorno a roghi, forche e altri strumenti del massacro e del terrore – annunciava un mondo di imperio e di danaro.
In un crinale storico decisivo – non sorridete ora, per favore, del tono ispirato di queste nostre parole – ci battemmo per alcune possibilità a discapito di altre.
La storia, infatti, non è l’ineluttabile traiettoria di un treno, come asserisce l’ideologia di cui si ammanta un falso progresso che altro non è se non una proterva volontà di sostituire alla potenza della vita il potere dell’astrazione e del calcolo, in primo luogo economico, e che si traduce in un sostanziale regresso dell’umano e in un crudele dominio sulla natura tutta.
La storia è un intricato bosco da cui partono tanti sentieri. Noi volemmo percorrere quello del comunalismo e non del potere centralizzato, della solidarietà e non della competizione, dell’equilibrio tra pascolo, campagna e villaggio e non del dominio della città, dell’assemblea libera e orizzontale e non della burocrazia lontana e impersonale. Abitammo e difendemmo una contro-società, un contro-mondo.
Hanno prevalso altri sentieri, trasformatisi via via in strade asfaltate e poi in gigantesche autostrade, tanto numerose e invadenti da far sparire agli occhi dell’anima tutti gli altri percorsi, resi forzosamente marginali, utopistici, financo inesistenti. Qualcuno scrisse che il progresso non distrugge mai così a fondo come quando costruisce. Una terra di rovine, infatti, suggerisce altre vite, altre storie, un’altra memoria. Una distesa di centri commerciali, invece, congela il passato e, nel giro di una generazione, s’impone come se fosse la normale destinazione di un territorio, la sua seconda e più vera natura. Per questo tanti vostri contemporanei non hanno obiezioni contro i treni ad alta velocità. Avendo accettato tutte quelle che l’hanno preceduta e preparata, una nuova calamità industriale la notano a malapena, come su di un corpo decomposto non si notano più le cicatrici. Quello che ormai tutti percepiscono è solo un oscuro e impellente bisogno di aria.
A fronte di una collettività dipendente, disgregata, scialacquatrice e impaurita, avete spezzato la routine e fatto emergere una grande sconosciuta: l’esperienza. Dopo anni e anni passati nell’isolamento, ciascuno a perdere la vita per guadagnarsela – come già vi scrivemmo nella nostra prima lettera –, spegnendo i televisori, lottando e parlandovi direttamente, avete evocato altre storie, altre memorie, introducendo l’appassionante possibile in un mondo di trite necessità. Così, dopo l’odiato treno, avete cominciato, lì da voi, a mettere in discussione le acciaierie e la seconda canna dell’autostrada, unendovi nello stesso tempo a tutte quelle lotte che, altrove, cercano di fermare altre minacce, altri disastri.
Per questo governanti e industriali cominciano ad aver paura. Sanno che ogni blocco di un cantiere ne prepara un altro e, rovesciando l’ordine della passività e della rassegnazione, introduce una nova ratio. Se è del tutto logico, secondo la ragione strumentale, accettare una nocività perché non si è fatto nulla per impedire le precedenti, comincia a diventare altrettanto logico, secondo la ragione umana, dopo aver difeso l’autonomia in un luogo, difenderla altrove.
“Non si può dire sempre e solo NO”, strillano in continuazione i vostri nemici. Non stupitevene, è nell’ordine delle cose. Infatti, costoro gradiscono un’unica risposta: “Sì, padrone”. Ma chi dice “SÌ” al folle treno del progresso non dice forse “NO” a tutto il resto? Trasformando le valli in “corridoi” per le merci e per un pugno di loro funzionari d’alto rango, si costringe a vivere negli sgabuzzini tutti gli altri esseri umani.
Il progresso offre, come i dépliant delle vacanze organizzate – altra calamità che la buona sorte ci risparmiò –, un pacchetto “tutto compreso”. Per questo un anziano pescatore bretone, in lotta assieme a tanti altri suoi compaesani contro una centrale nucleare, intervistato da un giornalista circa le ragioni di una così strenua opposizione, rispondeva: “Mi batto perché non voglio finire in un condominio popolare in città”. Non evocava, cioè, le ragioni più immediate della lotta – i rischi per la pesca, e dunque per il suo mestiere, oppure l’inquinamento dell’aria –, bensì qualcosa di apparentemente lontano: una solitaria vecchiaia, consumata nel chiuso di una celletta urbana. Ecco, quel pescatore aveva intuìto con lucidità l’intero contenuto del pacchetto offerto dal progresso e dalle sue radiazioni, e lo aveva prestamente rifiutato, senza nemmeno aprire la confezione.
Con scadenza regolare, telegiornali e gazzette informano un pubblico abbacchiato e rintontito circa i rischi di “infiltrazioni violente e terroristiche” nella vostra lotta e in altre simili. Se la lingua italiana non fosse così oltraggiosamente violentata, per “terrorismo” si dovrebbe intendere l’uso indiscriminato della violenza. Ma avete mai sentito un solerte giornalista definire “terrorista” il proprio governo che bombarda intere popolazioni civili? La storia, da questo punto di vista, non è cambiata granché. Anche noi, alla nostra epoca, fummo chiamati ladri e violenti da chi perpetrava, in nome dell’ortodossia religiosa, magni latrocinii e feroci massacri. A tutti costoro vogliamo qui ricordare che è con una verga di ferro che Cristo, al suo ritorno, castigherà gli empi. Quanto alle infiltrazioni, è assai più saggio preoccuparsi di chi s’intrufola nelle vostre file per poi vendervi ai banchetti imbanditi della politica.
La caparbia serenità con cui vi siete sottratti a codesti giochi truccati continua a preoccupare governanti, faccendieri e poliziotti. Hanno notato, lorsignori, che il linciaggio orchestrato prima della manifestazione di Vicenza ha solo fatto aumentare il numero dei pullman di valsusini solidali… E ora si avvicina il momento in cui, anche nella palladiana città dell’Oro, si tratterà di fare come al Seghino e sugl’innevati campi di Venaus: impedire ogni inizio dei lavori.
Settecento anni non passano in un soffio. Eppure il tempo si contrae e si dilata in modo assai maraviglioso. Se nell’agosto del 1300, a un mese dal rogo del caro Segalello, scrivemmo una lettera ai Fratelli Apostolici, oggi abbiamo altri fratelli a cui scrivere. E abbiamo appreso con un balzo di gioia che, poche settimane fa, una lettera d’ispirazione analoga a queste nostre è stata inviata dal Bauernführer Michael Gaismair alle genti del Tirolo e del Trentino in lotta contro l’Alta Velocità.
“Cogliere l’occasione” soleva ripetere, una quarantina d’anni or sono, un rivoluzionario nero da una segreta statunitense. Le vostre occasioni di libertà e resistenza coglietele con risolutezza, fratelli carissimi, perché la vita è breve e i sentieri più impervi si richiudono in fretta. Ma nella guerra contro il Tempo chi ha imparato ad assaporare la lentezza sa da quali treni scendere, e quando.

da nessun luogo, sul finire dell’agosto duemilasette

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