Glossarietto No Tav

Glossarietto NO TAV

equipaggiamento minimo in vista della ripresa delle ostilità

Edizioni Libera Repubblica di Venaus in esilio  
 

A  A sarà düra!

Questo slogan esprime con forza e ironia lo spirito della resistenza valsusina, e promette battaglia. Allo stesso tempo ci esorta, lontano com’è dal trionfalismo dei “vincenti”, a non ignorare le difficoltà, a guardarle negli occhi.
Le glosse che seguono sono un piccolo contributo per aguzzare la vista e armare gli spiriti. Per ripensare il cammino fatto finora e scoprire i sentieri possibili. Per raccogliere quell’equipaggiamento minimo che ci permetta di non restare in braghe di tela alle prime raffiche di vento.
I nostri alleati non li troveremo tra i dirigenti di questo mondo, ma tra i suoi nemici, che se di qualcosa difettano è di una consapevolezza e un’organizzazione adeguate, non certo del numero.
Le nostre forze non sono né poche né di poco conto. Siamo ricchi d’esperienza e di potenzialità incompiute, che han già fatto tremare i potenti e azzittito i buffoni di corte. Questi ultimi abbiamo imparato a riconoscerli dalle scelte e dai progetti scellerati che propagandano, non dal colore cangiante delle casacche, e sappiamo che son tutti contro di noi.
Abbiamo unito le generazioni e risvegliato il loro orgoglio, ridando slancio ai loro cuori. Abbiamo bloccato e costruito, lottato e vissuto.
A sbaraccare il cantiere di Chianocco fummo in ottanta. A sbaraccare quello di Venaus in trentamila.
Il maligno nanerottolo tornato sul trono minaccia ora d’inviarci i suoi lanzichenecchi. Siamo qui. A sarà düra!
 

B  Balmafol

“Canta a morte la mitraglia / giù macigni a rotolon; /
dàgli addosso alla gentaglia / trema tutto il gran vallon”.
Così cantavano, a Balmafol, i partigiani della 42ª brigata “Walter Fontan”. Era l’8 luglio 1944, i fascisti erano appena stati sconfitti, messi in fuga dai massi fatti rotolare dall’alta cima di Balmafol, sopra Bussoleno, e i combattenti già elaboravano la canzone delle proprie gesta. Sessanta uomini, braccati e male in arnese, con l’aiuto dei margari e grazie alla conoscenza del territorio, sbaragliarono un battaglione di soldati equipaggiati di tutte le moderne tecnologie belliche. Potenza del genio montanaro! Ecco perché Balmafol è diventato presto un simbolo, un mito. Così come il ponte del Seghino (là dove non passa il celerino) o la Libera Repubblica di Venaus (che vanta Asterix tra i suoi ospiti illustri), per il movimento NO TAV, sono diventati luoghi simbolici, baluardi di resistenza. Nella memoria delle genti si intrecciano i ricordi, le storie, i miti, soprattutto quando questi – riaccesi dal fuoco delle battaglie – tornano a vivere e a parlare abbandonando i musei e gli scaffali in cui erano stati confinati. La resistenza partigiana rivive, oggi, in quella NO TAV (così come rivivono altri episodi di resistenza umana, da Fra Dolcino e Margherita agli Indiani d’America, con cui i valsusini insorti contro il Progresso non hanno tardato a immedesimarsi). Ma la memoria di Balmafol non si esaurisce nell’evocazione di una bella e potente immagine, diventa suggerimento pratico, indicazione di una tecnica di lotta. I partigiani arroccati a Balmafol erano un piccolo gruppo, costretto a scegliere gli strumenti di battaglia più adeguati alle proprie forze. Sassi quando si è in tanti, macigni quando si è in pochi… La lotta è spesso fatta anche di questo: quando la forza del numero non basta, c’è bisogno dell’audacia dei pochi. La sua legittimità etica non è questione d’aritmetica. Anzi. Non dimentichiamoci che i partigiani, prima del dilagare della retorica resistenziale, erano spesso minoranze isolate. Achtung Banditen! Terroristi.
Ancora oggi, nei movimenti, i sabotaggi (o altre azioni di pochi) s’intrecciano con le pratiche di massa. Come quando, nell’impossibilità di aggirare collettivamente il check-point di Mompantero, ci pensarono i chiodi a quattro punte sulla strada a ostacolare i movimenti dei tecnici e delle truppe d’occupazione. Oppure quando, dopo lo sgombero del presidio di Venaus, una trentina di NO TAV bloccarono l’autostrada con rami e copertoni incendiati, inaugurando una pratica che, soltanto qualche ora dopo, sarebbe diventata di massa in tutta la valle.

C  Caos

“Bisogna portare un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” (F. Nietzsche). Quello valsusino è un caos propriamente irrappresentabile. Benché esistano NO TAV più o meno noti e autorevoli, non c’è nessun portavoce mediatico che esprima, semplificandola e banalizzandola, l’eterogeneità del movimento. Le ragioni di questa irrappresentabilità sono numerose.
Innanzitutto, l’assenza di gruppi o partiti politici in grado di controllare – attraverso i loro leader, la loro iconografia, il loro gergo, le loro trattative segrete e separate con istituzioni e polizia e, se del caso, attraverso i loro servizi d’ordine – la parola e le pratiche NO TAV. (La decomposizione della politica è giunta a un punto tale che il piacere di esistere e di resistere arriva a vincerla su quello di ordinare e di reclutare.)
In secondo luogo, a fianco di un movimento più organizzato (come quello strutturato nel coordinamento dei comitati), pulsa la capacità di autorganizzazione spontanea della gente, che in più occasioni non ha aspettato, per agire, le consegne di nessuno.
Infine, va aggiunta una sana diffidenza montanara per saltimbanchi e mercanti di notizie.
La vita dei presìdi e la composizione dei cortei (come a suo tempo dei blocchi) sono un fiume in piena che raccoglie le proprie acque da mille rivoli. La creatività popolare (visibile nei cartelli, negli striscioni, negli atteggiamenti, persino negli insulti) non viene né rappresentata né mimata: semplicemente, esiste.
Nonostante un’esperienza di lotta ormai consolidata, il cuore profondo della valle (quello che non partecipa assiduamente ai comitati, ma che nondimeno c’è) ha moti suoi e battiti ancora misteriosi. Il governo intuisce che ne può uscire di tutto: indignazione, petizioni, proclami di non-violenza, fucili da caccia.

D  Democrazia
(all’occorrenza partecipata)

Sembra quasi esser diventato lo slogan ufficiale del movimento NO TAV o perlomeno di chi parla a suo nome. “Difendere la democrazia, presidiare la Costituzione…”, si sprecano gli elogi alla Valsusa, presunto esempio di partecipazione, laboratorio di una rinascita della democrazia, finalmente genuina. Eppure a noi sembra proprio che la triste (ma illuminante) parabola del fronte istituzionale del movimento abbia, tutt’al contrario, sancito il pieno fallimento della democrazia partecipata. Anzi, con buona pace di tutte le ideologie di Carta, quest’ultima non è mai esistita: non c’è stato alcun coinvolgimento dei cittadini nelle scelte, solo la rappresentazione mediatica di un dialogo grazie al quale sono state fatte passare decisioni che i signori del TAV e della politica avevano già preso altrove. Ci han preso per il culo, e basta. Neppure il più ingenuo dei democratici può davvero credere che, quando sono in gioco le scelte che contano (infrastrutture strategiche, oltreché miliardarie), si concederà ai cittadini l’ultima parola. È già cara grazia se si consentirà loro di esprimere un’opinione (Vicenza insegna), con la quale poi nettarsi l’ano. Del resto, non si può dar torto a quel promotore del rigassificatore di Livorno quando, irritato dall’opposizione della popolazione locale, affermava: “Se è la gente a decidere, che cosa ci sta a fare il Parlamento?”. Proprio così… in fondo sta qui il problema. La retorica dei diritti democratici che noiosamente ci ha accompagnato mentre, senza tanti paroloni, abbiamo imposto nelle strade la cacciata delle forze di occupazione, ha mostrato la sua inconcludenza. I diritti (di parola, di scelta, di associazione, di dissenso…) ci vengono accordati soltanto alla condizione preliminare di non poterne fare uso. A meno che, appunto, non intervenga la forza a sbloccare la situazione. L’infrangersi delle illusioni può far male, d’accordo, ma giunti a questo punto una domanda s’impone: è il caso di continuare a perder tempo dietro astratte rivendicazioni democratiche o non è più utile affinare e rilanciare la nostra forza materiale? Correremo così il rischio di passare per “non-democratici”? Pazienza, ci sono insulti peggiori.

E  Esercito

Quando la televisione non basta più. L’ultimo argomento dello Stato, quello che sorregge tutti gli altri. Nel Belpaese si moltiplicano le resistenze delle popolazioni che rifiutano di rassegnarsi a un futuro di degrado, umiliazioni e malattie. I governi rispondono, rinnovando l’armamentario repressivo sotto il pretesto di un ormai perenne “allarme sicurezza”. Quando gli abitanti di Chiaiano insorgono contro l’ennesima discarica, la legge si aggiorna costruendo su misura nuove fattispecie di reato: l’“ostacolo alla complessiva azione di gestione dei rifiuti” e il “danneggiamento di impianti e strumenti per la gestione dei rifiuti” (DL 90/2008). Con la consapevolezza che le resistenze delle popolazioni saranno sempre più un problema, se non il problema, la “democrazia emergenziale per decreto” sforna leggi ad protestam. Ecco pronti in quattro e quattr’otto gli strumenti legislativi che consentono di schierare le forze armate a difesa dei luoghi di “interesse strategico” (con il dettaglio che d’ora innanzi qualsiasi luogo potrà diventarlo: una discarica come una banca, una fabbrica come un’autostrada… o un cantiere ferroviario). Così la democrazia getta la maschera e, dispiegando l’esercito contro i propri cittadini, notifica che la guerra si combatte dentro e fuori i confini, e che il nemico siamo noi.
Da un lato c’è da preoccuparsi (ancor meglio varrebbe prepararsi), dall’altro non è questo un segnale di debolezza? Chi ci governa sa dell’impopolarità delle sue scelte, al punto che per imporle deve far ricorso alla forza delle armi. Ma le forze reali si vedono in movimento. I sentieri della Valsusa li conosciamo meglio noi…

F  Forbici

È un’immagine nota quella della sarta che, l’8 dicembre 2005, estrae dalla borsa le sue lunghe forbici per tagliare la recinzione del cantiere di Venaus.
Che non si possa andare a un appuntamento di lotta decisivo con le mani in mano, armati solo di senno, è un esempio di saggezza pratica. Ma non solo. Intrecciandosi con mille altri episodi, incontri, gesti, dialoghi e scambi di battute, quelle forbici popolano un mondo insieme collettivo e interiore che ci sussurra: il TAV in Valsusa non passerà mai.

G  Grappa

“Resistere per esistere” era una scritta che campeggiava su vari cartelli e cartelloni a Venaus. Tra le tante bottiglie di grappa, mai mancate a riscaldare le fredde notti della Libera Repubblica, una suggeriva con la sua etichetta un curioso dialogo a distanza: “Esistere per resistere”.
Nella storia delle lotte è accaduto spesso che le forme organizzative abbiano fatto irruzione sulla scena prima ancora che fossero nate le parole per nominarle.
Qualcosa di simile è accaduto con i presìdi NO TAV. Da strumenti di lotta per impedire i sondaggi, essi sono diventati anche luoghi di incontro, discussione, socialità. Ma a trasformarli nel cuore pulsante del movimento sono stati i momenti di rottura collettiva.
Il presidio di Venaus è diventato un simbolo NO TAV (potremmo definirlo anche un mito, nel senso di racconto collettivo realmente vissuto, di “avvenire immaginato”) quando ha travalicato lo spazio della casetta dove si mangiava e si dormiva per tramutarsi in un vero e proprio villaggio, in una Libera Repubblica il cui spazio era delimitato e allo stesso tempo creato dalle barricate. Da tecnica di guerriglia, la barricata è diventata un mondo sottratto alla sovranità dello Stato, un mondo fuori dell’Italia. L’esperienza che ne è nata è stata quella di fare del blocco un luogo abitabile. Abitare la rottura è stato un paradosso effettivamente vissuto (la lotta che si intreccia con la vita quotidiana, la teoria con l’azione, la felicità come sospensione del tempo storico). Abitare il blocco (“resistere per esistere” / “esistere per resistere”) è una pratica che si sta diffondendo a livello planetario, una pratica che i movimenti si troveranno a dover affinare se è vero che viviamo in un sistema produttivo che merita, ogni giorno di più, di essere bloccato e non conquistato. La “crisi” è ormai il modo di funzionamento di un ordine sociale che produce in serie nocività che non sa gestire. Non si tratta di sacrificarsi per “risolvere la crisi”, ma di farla precipitare. Tirare le pietre prima di dover tirare la cinghia. Bloccare la via per rovesciare il blocco della situazione.

H  Harakiri

Squarciarsi il ventre, sotto lo sguardo compiaciuto del nemico, è un supplizio che i movimenti s’infliggono spesso. Gli uomini sono governati dalle opinioni, si legge nei Musicanti di Brema dei fratelli Grimm. Se a dire l’ultima parola sulle lotte e sulle resistenze fosse la forza, la minoranza che dirige il mondo non potrebbe evitare le disfatte né reggersi a lungo. Il fuoco lento su cui cuociamo si alimenta di legna che siamo noi stessi a fornire, complici inconsapevoli dei nostri oppressori, manutengoli del bastone con cui ci colpiscono.
L’harakiri dei movimenti ha un nome ben preciso: delega. L’illusione che qualcuno (partiti, sindacati, guide più o meno illuminate) possa agire al posto nostro è un’illusione funesta.
La presenza di sindaci e fasce tricolori nelle mobilitazioni valsusine ha sicuramente coinvolto i più moderati e contenuto la violenza del governo. Ma quella presenza non si è data gratis: da un lato essa è stata imposta dalla volontà di un’intera valle (“Ci vediamo alle elezioni!” urlò qualcuno quando un sindaco concesse alle truppe di occupazione di avanzare di qualche metro nel cantiere di Venaus…), dall’altro ha permesso, una volta partiti i mazzieri in divisa, i giochi della Politica. Se la folla, nei giorni successivi all’8 dicembre, ha aspettato al casello autostradale della valle i sindaci di ritorno da Roma (lasciandoli passare solo dopo aver verificato coi propri occhi che sui fogli governativi non c’erano le loro firme), il ritorno alla normalità – il più freddo dei freddi mostri – ha trasformato in una chimera la cosiddetta partecipazione popolare alle decisioni istituzionali. Così come la natura ruffiana e camaleontica del sostegno al movimento da parte dei partiti della “sinistra radicale” si è rivelata impietosamente con il dodecalogo imposto da Prodi (sì al TAV, sì agli inceneritori, sì ai rigassificatori e via devastando).
Solo l’azione diretta, senza deleghe né padrini, libererà la forza reale della Valsusa. “Fermare il TAV è possibile.
Fermarlo tocca a noi”. Allora le nostre spade non saranno per i nostri ventri.

I  Insurrezione

“L’insurrezione è l’unico momento in cui la parola ‘popolo’ non è una mistificazione, perché indica la potenza degli individui uniti” (Charles Meslet).
Nell’euforia dello slancio valsusino, qualcuno aveva auspicato “un’Italia dei presìdi” da contrapporre a quella dei partiti e dei poteri forti. Sia pure come semplice suggestione, quell’immagine ha il merito di sollevare il problema dei rapporti fra lotte, territori, autonomia.
Una cosa è certa: lo Stato non ha alcuna intenzione di cedere porzioni della sua sovranità alle assemblee popolari quando queste esprimono un grado effettivo di autorganizzazione. L’irruzione dell’autonomia nei territori statali è sempre un atto di forza, una trasgressione, una rottura. Non dimentichiamo che la Libera Repubblica di Venaus (pianeta Terra) è nata sulle barricate. Non solo. Una realtà valligiana liberata dai grandi flussi internazionali di merci, basata su produzioni e scambi più ravvicinati e controllabili, è un’idea che la critica al TAV contiene, sia pure in nuce. Ma i veleni del profitto e l’espansione del cemento ci stanno levando ogni giorno di più il terreno da sotto i piedi, per sradicarci dal possibile.
Prendersi collettivamente la capacità di decidere, fare dei luoghi di lotta dei luoghi abitabili, innalzare il piacere di vivere, senza rappresentanti, sono tracce che i potenti vorrebbero cancellare dalla geografia del territorio e dell’anima, grumi di extraterritorialità umana.
L’insurrezione è un NO che cresce in estensione e in intensità, nei paesi come nelle coscienze, un NO che permette ai nostri innumerevoli SÌ di germogliare. È l’incontro della leggerezza con il rigore.

L  Lestofanti

Non facciamoci illusioni. Questi tre anni, il partito del TAV (che è il partito dello Stato) non li ha né dormiti né giuocati. Conferenza dei Sindaci, Tavolo Politico, Osservatorio, Cabine di regia, Comitati di pilotaggio, Centri di governance unitaria, F.A.R.E. ecc. hanno ottenuto più risultati delle manganellate ordinate dal precedente governo Berlusconi. Il meccanismo con cui sono state cooptate quasi tutte le forze istituzionali locali è stato ben oliato: martellante campagna mediatica, compravendita dei consensi, manovre politiche nascoste dietro tavoli di presunto confronto tecnico, conferenze a porte chiuse difese dalla forza pubblica, scavalcamento di fatto dei consigli comunali, “democrazia a inviti” ecc. dimostrano non già il tradimento evitabile di sindaci e amministratori, bensì la consueta forza corruttrice della Politica. Niente di nuovo, cambia solo il frasario.
Le Grandi Opere fatte sopra la testa delle popolazioni non rappresentano un’eccezione, bensì la norma in un Paese messo a sacco fin dagli anni del “boom economico”, quando l’ideologia del benessere e dello sviluppo si riversava in immani colate di calcestruzzo, dighe a orologeria, arditi (invero orripilanti) viadotti, poli petrolchimici dispensatori di morte eccetera.
Dietro la foglia di fico del dialogo e della democrazia partecipata, oggi si lavora per screditare e isolare l’intransigenza NO TAV, riservando al campo istituzionale il monopolio del discorso e della decisione. L’anomalia valsusina andava normalizzata: i governanti decidono, i governati obbediscono.
Se aleggia la paura che la defezione del campo istituzionale renda il movimento NO TAV più diviso e più debole, il seguito dimostrerà che la lotta prima o poi chiarifica sempre gl’intenti, le posizioni, i metodi. Non ingannarsi sui rapporti di forza reali è necessario. Quello istituzionale resta un teatro delle ombre fino a che non arrivano le trivelle e le truppe di occupazione. Il TAV non si fa con le chiacchiere (e nemmeno con i fondi stanziati). Di qui dovranno passare.
Berlusconi ha già minacciato, com’è noto, di usare la forza. Sa bene che i cosiddetti mediatori governativi e i rappresentanti della Valle (i Virano e i Ferrentino) non possono mediare sine die né rappresentano un granché.
La libertà, l’autorganizzazione, l’orgoglio della resistenza emanano un profumo che non si dimentica in fretta. Non mettere in gioco il proprio futuro se non si è disposti a giocare con tutte le proprie possibilità, diceva un certo adagio. E questo è vero su entrambi i lati della barricata.

M  Motosega

Seghino, 31 ottobre 2005, prime luci del mattino. Una “vedetta” NO TAV avverte che dalla caserma di Susa son partiti i blindati: il rumore di una motosega squarcia il silenzio dell’alba. Un albero viene abbattuto per esser messo in mezzo alla strada. Ne nasce una discussione non proprio rilassata (c’è il tempo anche per questo: i blindati in arrivo erano un falso allarme). La motosega torna a tacere. L’esercito dei caschi blu sta salendo (stavolta per davvero), il centinaio di NO TAV improvvisa qualche barricata con sassi e un guardrail, si serra davanti alle divise e poi… arriva la gente, a decine, a centinaia, famiglie, giovani, anziani. Le truppe non passano.
Venaus, notte tra il 29 e il 30 novembre 2005. Le prime barricate cominciano a innalzarsi. Non mancano accese discussioni. Fino al 1º dicembre, quando si assiste al tentativo, da parte delle forze dell’ordine, di occupare militarmente la zona dei cantieri (a partire dai campi a sud del presidio – l’Ultima spiaggia, nella toponomastica NO TAV). Ora la vigoria dei corpi sembra non bastare. Irrompe di nuovo il rumore delle motoseghe: servono tronchi, e tanti. Questa volta si alza potente l’applauso dei presenti, che si affrettano ad accatastare la legna.
Valsusa, 6 dicembre 2005. Dopo lo sgombero violento del presidio di Venaus, le motoseghe sono una presenza costante – tronchi tagliati ovunque –, sull’autostrada come sulle statali invase da migliaia di studenti e lavoratori in sciopero.
Nelle rivolte popolari, la coscienza pratica, che si alimenta nel comune sentire di essere nel giusto, sta sempre un passo avanti rispetto a quella teorica. Si discute ancora di legalità e illegalità quando si stan costruendo le prime barricate e un buon numero di reati sono già stati commessi. Quello che prima sembrava “illegittimo” o anche solo impossibile, diventa, nel vivo della lotta, necessario, spontaneo, desiderabile, gioioso.
Dietro una motosega, una piccola storia degli affetti.

N  No mafia

In quasi tutt’Italia la scritta “NO MAFIA” esprimerebbe semplicemente uno di quei luoghi comuni che metton tutti d’accordo. Cos’è la mafia e soprattutto dov’è? Ovunque, cioè da nessuna parte. Impossibile dare all’ingiustizia nome, cognome e indirizzo, impossibile agire. La scritta “NO MAFIA” che si staglia dal monte Musinè a fianco di quella “NO TAV”, invece, ha suscitato reazioni isteriche di sdegno e di condanna. Se la “mafia” comincia a essere qualcosa di concreto (per esempio parte integrante del sistema-TAV) e, soprattutto, se chi lo afferma è un movimento non di opinione ma di lotta, allora l’unanimismo legalitario mostra le sue crepe. Gli affari sono affari. Il caso dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, prima simbolo della lotta alla corruzione e poi uomo politico nonché accanito sostenitore del TAV e del suo sistema mafioso, dimostra la natura falsa e retorica dei proclami antimafia.

O  Osservatorio

“Temo i Greci anche quando portano doni”, questa è la frase che la tradizione attribuisce a Laocoonte circa il cavallo di legno offerto dagli invasori alla città assediata. I Troiani, però, non credettero al vecchio sacerdote, come non avevano prestato fede al monito di Cassandra, e mal gliene incolse.
Certo non sono mancate in Valsusa le Cassandre che hanno messo in guardia circa la natura sinistra dell’Osservatorio tecnico nato nel 2006. Né si può dire che lo Stato abbia giocato a carte proprio coperte. Nominare alla presidenza di un Osservatorio sedicente super partes l’architetto Mario Virano, già commissario governativo per la Torino-Lione, non offriva quella che si dice un’immagine d’imparzialità. Ai signori del cemento e del tondino bastava poter dichiarare che la Valsusa era disposta a dialogare. Tutti gli studi tecnici pubblicati dall’Osservatorio stesso dimostrano che la nuova infrastruttura sarebbe inutile anche dal punto di vista trasportistico? Non conta. L’importante è far credere che c’è collaborazione tra il governo e l’opposizione ragionevole, per poi giustificare i manganelli contro quella irragionevole, rappresentata da “un pugno di irriducibili” sordi – loro! – all’oggettività degli argomenti scientifici.
Questo moderno cavallo di Troia, accolto con un sospiro di sollievo da Ferrentino e colleghi, non avrebbe potuto varcare le mura né durare senza la costante e interessata copertura mediatica. Altrove il gioco aveva già funzionato bene (per restare al TAV, pensiamo al Mugello). Ma l’autonomia dei movimenti rispetto ai partiti e alle loro reti clientelari è una brutta bestia da domare.
Il tentativo di guadagnare tempo affidando agli amministratori locali il compito di far valere le ragioni del NO di fronte al governo si è rivelato perdente. Ma la Valsusa che resiste è rimasta sulle proprie posizioni.
Il TAV passa o non passa. Non c’è mediazione possibile.

P  Parastinchi

1º dicembre 2005. Non potendo oltrepassare il blocco degli armati di Stato al bivio dei Passeggeri, un gruppetto di NO TAV cerca di raggiungere Venaus passando da Giaglione. Un valsusino li vede e li carica a bordo del suo fuoristrada. Proprio mentre si stanno salutando all’imbocco di un sentiero, l’autista riceve una telefonata della moglie dal presidio: “La polizia sta per caricare!”. Dopo una sequela assai poco democratica d’improperi all’indirizzo delle forze dell’ordine, quel signore piuttosto distinto passa a uno dei ragazzi appena incontrati il costoso casco integrale che aveva in auto, tenendo per sé un paio di parastinchi che indossa in fretta e furia. Rabbia, fiducia e prontezza: tre fidi alleati di cui avremo ancora bisogno.

Q  Quadruplicamento

La nuova linea ferroviaria Torino-Lione si è sempre chiamata TAV. Vista la cattiva fama in cui era caduta la parola, gli allegri linguisti salariati dallo Stato, un bel giorno, ci han detto che non avevamo capito bene, che la parola giusta era TAC. Scarsa fortuna. I NO TAV sono rimasti NO TAV. Grazie alla “lingua creativa” (corrispettivo della “finanza creativa”, come gli economisti chiamano la speculazione più selvaggia), Virano & C., a un certo punto, hanno cominciato a parlare di quadruplicamento della linea (cosa vuoi che sia aggiungere due binari… ad alta velocità?). La tendenza a un quadruplicamento delle merci in transito per la Valsusa (da assecondare con nuove infrastrutture) è stata smentita da tutti gli studi tecnici. Bene: altro giro, altro regalo. Ora tocca di nuovo ai passeggeri. La necessità diventa quella di un Sistema Ferroviario Metropolitano (SFM: se invento la sigla esisterà anche la cosa, o no?) per collegare Torino e Avigliana. Un treno ogni mezz’ora, per incominciare.
Che i valsusini possano preferire una valle non devastata dove poter vivere senza andare su e giù da Torino è l’unico “tracciato” non contemplato. Qualche Grande Opera bisogna pur costruirla. L’importante, lo abbiamo capito, è F.A.R.E.

R  Riposa in pace

“Qui riposa in pace la coscienza di chi diceva: Tanto alla fine lo faranno”. Questa frase, scritta nel 2005 su una delle croci piantate simbolicamente nei prati di Venaus, indica che ancora poco prima del Seghino la certezza di poter fermare il TAV non era affatto diffusa, che quel cavallo di Frisia che è la rassegnazione presidiava non poche zone deboli del decidere e dell’immaginare. Gli argomenti contro un’opera inutile e devastante, per quanto ben fondati, da soli non bastano. Pensiamo a quell’ostinato illuminista che, nei campi innevati di Venaus, elencava le 100 ragioni del NO TAV agli agenti in assetto antisommossa al di là del fossato. Per riprenderci i cantieri, la settimana dopo, c’è voluta anche la forza. Ed è proprio quella forza che ha travalicato i confini della valle, diventando sinonimo di riscossa per decine di altre lotte, fonte d’ispirazione, sommario d’arme e di leggerezza. La testardaggine di “quattro montagnini” (come disse Lunardi) avrà conseguenze non solo nei salotti buoni, ma anche là dove si preparano altre nocività e si organizzano altre resistenze. Che la posta in gioco in Valsusa abbia una portata generale è chiaro a noi come ai signori del TAV. Di fronte al vento gelido della minaccia e della calunnia, come nel caldo della rivolta, la valle non sarà sola.
N.B. La Riposa è anche il luogo dov’è stato redatto il documento con cui i sindaci, dopo l’incontro di Pra Catinat, volevano far inghiottire ai valsusini la pillola del F.A.R.E. Le istituzioni non hanno capito però che solo dai morti si può pretendere obbedienza (“obbediente come un cadavere”, scriveva l’inquisitore Loyola). Dai vivi no. I vivi si battono.

S  Sol Levante

Nella Libera Repubblica di Venaus persino le barricate avevano un nome. Quella orientale si chiamava “barricata del Sol Levante”. Sollevante è la sensazione di comunanza che si crea mangiando, dormendo e lottando assieme. Sollevante è la sensazione di abitare un luogo che sfugge alla politica, alla geografia e a tutte le mappe del Consentito. Quasi una piega in cui trovano rifugio i sopravvissuti alla Storia (montanari ostili al Progresso e alle sue ruspe, valsusini d’adozione, sovversivi d’ogni età). Quasi una breccia che apre a una vita più dignitosa e più intensa.
Il Sol Levante non è solo alle nostre spalle, ma anche davanti a noi, come realizzazione dell’incompiuto, come promessa da mantenere: “Soldati e trivelle fora d’le bale!”.

T  The

Fino alla sera del 5 dicembre 2005, alcune donne del presidio continuano a offrire the caldo ai poliziotti e ai carabinieri che circondano la Libera Repubblica di Venaus. “Non si offre il the a chi è pagato per picchiarci”, s’indigna qualcuno che le truppe di occupazione le ha già viste all’opera varie volte. “In fondo sono dei ragazzi, fanno solo il loro lavoro”, ribatte qualcun altro che con la Celere non si è mai scontrato. “Un the, in Valsusa, non lo si nega a nessuno”. Buona creanza montanara. Il 6 dicembre, dopo le manganellate, i pugni e i calci democraticamente distribuiti ai ragazzi come agli anziani che dormivano al presidio, nessuno offriva più the agli uomini in divisa. Nel giro di mezza giornata, un corso accelerato di dottrina dello Stato.

U  Uccellacci del malaugurio

I giornalisti, diceva Karl Kraus, fanno più danni della sifilide. Se proprio non si riesce a evitarli, bisogna usare sempre la massima cautela.
Uno dei punti di forza (e delle fortune) del movimento NO TAV risiede nel fatto che la sovraesposizione mediatica è arrivata solo dopo gli scontri sul ponte del Seghino. Il sapere, i rapporti, i presìdi sono cresciuti al riparo da ribalte e riflettori (per lo meno di quelli nazionali). Leader e pose, interviste e scoop non hanno occupato la scena. La vita non ha ceduto armi e bagagli alla rappresentazione.
Le lotte precocemente esposte allo schiacciasassi dello spettacolo tendono a riprodurre al proprio interno i giochi di potere. Il cuore di un movimento non va confuso con l’immagine che ne dànno i mass media. La fiducia nei nostri mezzi autonomi, quella fiducia che ci infondiamo reciprocamente con la parola e con i fatti, vale cento volte l’attenzione che può riservarci un qualunque telegiornale.
Gli allarmi giornalistici (sulle “infiltrazioni terroristiche”, sui pericoli della violenza) non attecchiscono sempre allo stesso modo. Più forti, diretti e intensi sono i rapporti umani, meno peso hanno le campagne di criminalizzazione. La ragione non è misteriosa: il malaugurio mediatico ha bisogno, per diffondersi, del deserto sociale, della “saharizzazione degli spiriti”, di un “formicaio di uomini soli”.
L’esempio della Valsusa è emblematico. Pur non essendo stato paralizzante, lo scientifico lavorìo contro i “violenti”, i “terroristi”, gli anarchici (dall’ignobile linciaggio mediatico di Sole, Baleno e Silvano agli articoli del 2005) aveva creato una certa diffidenza, alimentata ad arte da alcuni corvi per ragioni politiche. La lotta fianco a fianco ha trasformato, giorno dopo giorno, la diffidenza in curiosità e poi in complicità.
I tradimenti e i tentativi di divisione, d’altronde, sono arrivati dal campo della moderazione (istituzionale), non da quello dell’estremismo (anarchico). E questo nessun venditore di paura e di paranoia potrà farcelo scordare. Come Gianfranco Bianco (l’inguardabile giornalista del TG3) non scorderà la sua fuga dal presidio di Borgone rincorso dai giovani e dai pensionati combattenti…

V  Violenza

Quando ci vuole, ci vuole. L’etichetta di “non-violento” appiccicata sulla groppa dell’indefinibile movimento valsusino è un marchio quantomeno riduttivo. Finora, il carattere tendenzialmente tranquillo delle mobilitazioni NO TAV ha permesso ad alcune minoranze politicizzate di spacciare la loro ideologia pacifista come se fosse quella di tutti. Ma non è forse stata la forza materiale del movimento a concedergli il lusso di essere, tutto sommato, pacifico? Non è forse stata l’implicita minaccia che avremmo reagito con ben altro piglio a consentirci di evitarlo? Un esempio su tutti: al Seghino, nell’ottobre 2005, le truppe in divisa hanno capito che si sarebbero fatte male. Le pietre erano pronte a rotolare (Balmafol insegna) e in basso c’erano loro, su di un terreno ostile. Chi definisce questo un esempio di non-violenza non sta parlando pulito. Nessuno è fanatico della violenza, così, a gusto. Ma chi l’ha detto che avremo voglia di farci gandhianamente bastonare per far spazio ai cantieri del TAV? Mutevole è l’umore delle genti, soprattutto quando la posta in gioco non è una qualche opinione, ma il futuro proprio e quello dei propri figli. Violenza o non-violenza è un falso problema buono solo a crear malumori e distinguo a uso del nemico.
Imprevedibili e inclassificabili, leggeri e irremovibili, né buoni né cattivi, ecco la nostra ricchezza, la nostra forza. Abbiamo fatto paura allo Stato. È ora di assumercelo e rivendicarlo con orgoglio.

Z  Zavorra

Per andare in battaglia bisogna essere leggeri (nel passo e nella mente, ma non nell’intelligenza di sé e del nemico). Bisogna liberarsi della zavorra. I falsi amici e i pretesi rappresentanti della lotta NO TAV hanno fatto più danni (con i loro Osservatori, le loro Conferenze, le loro Cabine, il loro F.A.R.E.) di chi ha mandato le truppe in divisa e ferraglia. La zavorra delle varie ideologie elaborate sulla Valsusa non è stata di minor peso. Ma il movimento ha tutte le forze qualitative e quantitative per fuggire le trappole, i consigli interessati, gli elogi obliqui.
Questo glossarietto vuol essere un agile strumento di autocomprensione del percorso già fatto e di messa a fuoco delle prospettive, per giocare d’anticipo sulle ostilità che ci attendono. Un bagaglio a mano, contenente lo stretto indispensabile, per tornare leggeri a quel luogo in cui le differenze hanno sempre fatto la differenza: la barricata.

Alcuni della barricata del Sol Levante
dicembre 2008
 

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HAERESIS


L’eresia e la rivolta

Rappresentazione allegorica della resurrezione
Louis Schiavonetti su originale di William Blake, Londra 1808
Citazione di Walter Benjamin

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NUOVA LETTERA DI DOLCINO E MARGHERITA


Seconda lettera di Dolcino e Margherita
ai valsusini in lotta e ai loro sodali

Cari valligiani ribelli,
abbiamo deciso, percorrendo di nuovo quel sentiero scosceso che sospende il tempo storico, di tornare in vostra compagnia.

Abbiamo saputo delle varie iniziative che si sono svolte di recente, in molte parti d’Italia, per ricordare la nostra lotta e la nostra morte sul rogo, settecento anni or sono. Se tanta attenzione, dopo secoli di censure e calunnie, ci fa di certo piacere – in particolare durante quelle ore del giorno in cui forte si avverte la presenza del demone della malinconia –, dobbiamo nondimeno lamentare certi tentativi di appiattirci sulle innocue pagine culturali delle gazzette o di rinchiuderci nelle sale di un museo. Invero, non ci preoccupiamo granché di questi nuovi agguati, noi che sapemmo scamparne tanti altri. I nostri cuori vagabondi sono altrove, nei luoghi in cui si resiste, là dove la pratica invera e riattualizza il significato profondo, invariante, dei nostri sforzi.
Per questo, salutiamo calorosamente il vostro incontro di Venaus, dove per tre giorni parlerete di “streghe e banditi, eretici e contadini insorti e del filo che annoda le lotte di ieri a quelle di oggi”. E danzerete, coi suonatori delle vallate alpine, e berrete in allegria. E ci sarà chi baccaglia e chi si abbevera agli occhi di cerbiatto dell’amata.
Ne avete fatta di strada, montanari testardi, in quest’anno e mezzo. I vostri presìdi, le vostre affollate assemblee e le vostre barricate hanno portato un po’ ovunque folate del vento caldo della riscossa. Non c’è progetto di morte e di devastazione ambientale – si chiami base militare, inceneritore, rigassificatore, bretella autostradale o discarica – che non veda un raggruppamento umano levarsi in piedi per affermare: “Faremo come in Val di Susa”. L’esigenza era nell’aria da tanto, troppo tempo; ciò che mancava non erano né libri arguti né profonde analisi, ma la più semplice delle buone novelle: “Si può”.
Il nemico, com’era prevedibile, non è stato a guardare. Dopo gl’insulti e i colpi di manganello da destra, sono arrivate le lusinghe e le mercature da sinistra, menzognere le prime e truffaldine le seconde. Ma l’illusione di avere “governi amici” si è sciolta presto, come i ghiacciai sotto la pressione dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. Il dodecalogo del servile e sinistro camaleontismo – ché altro non erano i “dodici punti” del felsineo che vi governa – ha funzionato a rovescio, svelando a chiunque i trucchi della politica istituzionale. Ammainate le bandiere di partito dal presidio dei “pensionati combattenti” di Borgone, una nuova leggerezza ha dato ali alla lotta. A Vicenza, a Bolzano, a Bassano, a Serre, ad Aprilia… avete saputo unirvi con tante altre esperienze, riannodando i fili della solidarietà e dell’autorganizzazione.
Seme e frutto di tanti incontri è stato un bel patto di mutuo soccorso, nome antico per indicare una ritrovata tensione alla fratellanza. Un patto che vi ha spinto a occupare binari, noleggiare pullman, viaggiare tra valli e città, raccontare e imparare. Senza elaborare – felice intuizione! – alcun programma né creare alcuna struttura fissa con i suoi portavoce, i suoi altisonanti proclami, le sue ragionevoli proposte per “mettere ordine in un porcile”, come scrisse il poeta.
Unendovi in questo patto, voi siete riusciti là dove noi fallimmo, impediti dalle avverse condizioni del nostro tempo: nell’imboccare la strada che conduce alla generalizzazione della lotta. Noi morimmo fieri ma isolati, allora essendo il grosso della popolazione ancora integrato nei quadri del sistema feudale, che legava il contadino alla gleba e l’artigiano alla sua corporazione. Ben altro destino vi attende, in questo vostro tempo che, nel crepuscolo del mondo industriale, intravede la fine potenziale della civiltà del potere e della merce.
I tentativi di far entrare di soppiatto la politica della delega e del compromesso non sono mancati, né mancheranno. Da parte delle istituzioni locali non meno che dei cosiddetti movimenti. Il vecchio mondo è sempre in agguato. E ha strumenti assai potenti. In un giorno può far credere – nel suo universo di fantasmi – che si è infine raggiunto un accordo con la popolazione locale per spostare di qua o di là il percorso del funesto treno. Ma la bella e caotica serata di Bussoleno è lì a ribadire una verità troppo semplice e diretta, evidentemente, per le contorte e oblique menti di governanti e cortigiani: di qui non si passa.
In tanti vorrebbero strapparvi un programma. Nella sua semplicità, uno dei “programmi” più sensati lo ha formulato, in una battuta, un vostro attempato compaesano dialogando con un giovane sovversivo: “Sono in pensione. Per me ci sono solo l’orto e le lotte”. L’orto e le lotte… Se ci aggiungiamo la creatività e l’amore (a-mors: toglimento di morte), non vi sembra un bel progetto di vita?
Le campagne sono ormai ridotte a distese di capannoni industriali, ipermercati, multisale, elettrodotti, bretelle e svincoli autostradali, parcheggi e quant’altro, in un continuum di cemento e asfalto che unisce una città all’altra togliendo spazio alla vita, nello squallore sempreuguale di un hinterland senza fine. E il cibo è ormai qualcosa che spunta in modo misterioso e occhieggia luccicante sugli scaffali del supermercato. In un mondo simile, coltivarsi un orto è una boccata d’ossigeno e autonomia, una ripresa di contatto con la terra che ci nutre, l’allusione pratica a un’attività umana che usa consapevolmente e con grazia gli strumenti di cui abbisogna e custodisce il senso dei propri gesti. Un orto collettivo in un presidio, poi, disegna uno spazio antico e nuovo da abitare, fatto di tanti “SÌ” che crescono come teneri germogli al riparo di un grande “NO”.
“Agguati dell’avvenire”, così uno scrittore esule definiva gli spaventi. Forse, nei piccoli spazi di libertà strappata e coltivata si vive un diverso agguato del futuro: una promessa di felicità. Orti e lotte, dunque. Il radicamento e il viaggio. La cura del noto, la sperimentale apertura all’ignoto.
Alcuni secoli dopo la nostra dipartita capimmo assai meglio quale fosse stata la posta in gioco nella guerriglia che avevamo combattuto assieme ai rustici e ai montanari. La brutale repressione che seguì alla nostra sconfitta – prolungata da un violento e plurisecolare agitarsi di abiti talari, toghe e uniformi attorno a roghi, forche e altri strumenti del massacro e del terrore – annunciava un mondo di imperio e di danaro.
In un crinale storico decisivo – non sorridete ora, per favore, del tono ispirato di queste nostre parole – ci battemmo per alcune possibilità a discapito di altre.
La storia, infatti, non è l’ineluttabile traiettoria di un treno, come asserisce l’ideologia di cui si ammanta un falso progresso che altro non è se non una proterva volontà di sostituire alla potenza della vita il potere dell’astrazione e del calcolo, in primo luogo economico, e che si traduce in un sostanziale regresso dell’umano e in un crudele dominio sulla natura tutta.
La storia è un intricato bosco da cui partono tanti sentieri. Noi volemmo percorrere quello del comunalismo e non del potere centralizzato, della solidarietà e non della competizione, dell’equilibrio tra pascolo, campagna e villaggio e non del dominio della città, dell’assemblea libera e orizzontale e non della burocrazia lontana e impersonale. Abitammo e difendemmo una contro-società, un contro-mondo.
Hanno prevalso altri sentieri, trasformatisi via via in strade asfaltate e poi in gigantesche autostrade, tanto numerose e invadenti da far sparire agli occhi dell’anima tutti gli altri percorsi, resi forzosamente marginali, utopistici, financo inesistenti. Qualcuno scrisse che il progresso non distrugge mai così a fondo come quando costruisce. Una terra di rovine, infatti, suggerisce altre vite, altre storie, un’altra memoria. Una distesa di centri commerciali, invece, congela il passato e, nel giro di una generazione, s’impone come se fosse la normale destinazione di un territorio, la sua seconda e più vera natura. Per questo tanti vostri contemporanei non hanno obiezioni contro i treni ad alta velocità. Avendo accettato tutte quelle che l’hanno preceduta e preparata, una nuova calamità industriale la notano a malapena, come su di un corpo decomposto non si notano più le cicatrici. Quello che ormai tutti percepiscono è solo un oscuro e impellente bisogno di aria.
A fronte di una collettività dipendente, disgregata, scialacquatrice e impaurita, avete spezzato la routine e fatto emergere una grande sconosciuta: l’esperienza. Dopo anni e anni passati nell’isolamento, ciascuno a perdere la vita per guadagnarsela – come già vi scrivemmo nella nostra prima lettera –, spegnendo i televisori, lottando e parlandovi direttamente, avete evocato altre storie, altre memorie, introducendo l’appassionante possibile in un mondo di trite necessità. Così, dopo l’odiato treno, avete cominciato, lì da voi, a mettere in discussione le acciaierie e la seconda canna dell’autostrada, unendovi nello stesso tempo a tutte quelle lotte che, altrove, cercano di fermare altre minacce, altri disastri.
Per questo governanti e industriali cominciano ad aver paura. Sanno che ogni blocco di un cantiere ne prepara un altro e, rovesciando l’ordine della passività e della rassegnazione, introduce una nova ratio. Se è del tutto logico, secondo la ragione strumentale, accettare una nocività perché non si è fatto nulla per impedire le precedenti, comincia a diventare altrettanto logico, secondo la ragione umana, dopo aver difeso l’autonomia in un luogo, difenderla altrove.
“Non si può dire sempre e solo NO”, strillano in continuazione i vostri nemici. Non stupitevene, è nell’ordine delle cose. Infatti, costoro gradiscono un’unica risposta: “Sì, padrone”. Ma chi dice “SÌ” al folle treno del progresso non dice forse “NO” a tutto il resto? Trasformando le valli in “corridoi” per le merci e per un pugno di loro funzionari d’alto rango, si costringe a vivere negli sgabuzzini tutti gli altri esseri umani.
Il progresso offre, come i dépliant delle vacanze organizzate – altra calamità che la buona sorte ci risparmiò –, un pacchetto “tutto compreso”. Per questo un anziano pescatore bretone, in lotta assieme a tanti altri suoi compaesani contro una centrale nucleare, intervistato da un giornalista circa le ragioni di una così strenua opposizione, rispondeva: “Mi batto perché non voglio finire in un condominio popolare in città”. Non evocava, cioè, le ragioni più immediate della lotta – i rischi per la pesca, e dunque per il suo mestiere, oppure l’inquinamento dell’aria –, bensì qualcosa di apparentemente lontano: una solitaria vecchiaia, consumata nel chiuso di una celletta urbana. Ecco, quel pescatore aveva intuìto con lucidità l’intero contenuto del pacchetto offerto dal progresso e dalle sue radiazioni, e lo aveva prestamente rifiutato, senza nemmeno aprire la confezione.
Con scadenza regolare, telegiornali e gazzette informano un pubblico abbacchiato e rintontito circa i rischi di “infiltrazioni violente e terroristiche” nella vostra lotta e in altre simili. Se la lingua italiana non fosse così oltraggiosamente violentata, per “terrorismo” si dovrebbe intendere l’uso indiscriminato della violenza. Ma avete mai sentito un solerte giornalista definire “terrorista” il proprio governo che bombarda intere popolazioni civili? La storia, da questo punto di vista, non è cambiata granché. Anche noi, alla nostra epoca, fummo chiamati ladri e violenti da chi perpetrava, in nome dell’ortodossia religiosa, magni latrocinii e feroci massacri. A tutti costoro vogliamo qui ricordare che è con una verga di ferro che Cristo, al suo ritorno, castigherà gli empi. Quanto alle infiltrazioni, è assai più saggio preoccuparsi di chi s’intrufola nelle vostre file per poi vendervi ai banchetti imbanditi della politica.
La caparbia serenità con cui vi siete sottratti a codesti giochi truccati continua a preoccupare governanti, faccendieri e poliziotti. Hanno notato, lorsignori, che il linciaggio orchestrato prima della manifestazione di Vicenza ha solo fatto aumentare il numero dei pullman di valsusini solidali… E ora si avvicina il momento in cui, anche nella palladiana città dell’Oro, si tratterà di fare come al Seghino e sugl’innevati campi di Venaus: impedire ogni inizio dei lavori.
Settecento anni non passano in un soffio. Eppure il tempo si contrae e si dilata in modo assai maraviglioso. Se nell’agosto del 1300, a un mese dal rogo del caro Segalello, scrivemmo una lettera ai Fratelli Apostolici, oggi abbiamo altri fratelli a cui scrivere. E abbiamo appreso con un balzo di gioia che, poche settimane fa, una lettera d’ispirazione analoga a queste nostre è stata inviata dal Bauernführer Michael Gaismair alle genti del Tirolo e del Trentino in lotta contro l’Alta Velocità.
“Cogliere l’occasione” soleva ripetere, una quarantina d’anni or sono, un rivoluzionario nero da una segreta statunitense. Le vostre occasioni di libertà e resistenza coglietele con risolutezza, fratelli carissimi, perché la vita è breve e i sentieri più impervi si richiudono in fretta. Ma nella guerra contro il Tempo chi ha imparato ad assaporare la lentezza sa da quali treni scendere, e quando.

da nessun luogo, sul finire dell’agosto duemilasette

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Davide Lazzaretti

  David Lazzaretti: l’ultima eresia popolare italiana  


 
Tavo Burat  


Dopo quasi 120 anni dalla morte, la figura di David Lazzaretti, il profeta contadino ucciso dalle «forze dell’ordine» nel 1878, rimane emblematica di una cultura alternativa di classi subalterne che spostano la loro ansia di giustizia e di trasformazioni sociali dal terreno dell’impegno «politico», civile, a quello delle soluzioni soprannaturali. Il movimento che lui creò, e che non finì – come invece erroneamente molti credono – con il suo assassinio, costituisce l’ultima eresia popolare italiana. 
 

David Lazzaretti nacque ad Arcidosso, nell’Amiata (Grosseto), nel 1834 ed era un barrocciaio, come il padre. Ebbe una giovinezza non molto edificante: il suo comportamento era quello del carrettiere toscano, facile sia al vino che ai dadi e alla bestemmia; tuttavia, riuscì da solo a imparare a leggere e si appassionò alla lettura di ogni libro che gli capitava per le mani, sia poemi che romanzi; benché lo scritto gli costasse sforzo, componeva versi prendendo a modello Dante e Ariosto. Sentì il fascino del Risorgimento e si arruolò volontario nella cavalleria piemontese prendendo parte alla battaglia di Castelfidardo (186o), dove le forze papaline furono travolte dal generale Cialdini. La sua «conversione» avvenne nel 1868, quando ebbe visioni di san Pietro che gli dettava una serie di «sentenze», che erano in realtà una miscellanea di luoghi comuni tratti dai quaresimali dei predicatori di quegli anni, che giravano le campagne tenendo le «missioni». Non appariva certo un «riformatore»: definiva infatti i protestanti, che chiamava anglicani e che erano molto attivi nell’opera di evangelizzazione d’Italia (in realtà speravano che la liberazione d’Italia dal potere temporale e dalle piccole monarchie bigotte asburgiche o borboniche avrebbe avuto come conseguenza la vittoria della Riforma in Italia: questa non fu l’ultima ragione delle simpatie inglesi – anglicane, appunto! – per la causa dell’unità e indipendenza d’Italia), «eretici e incredenti, disonesti, immorali e scandalosi», perché «nella sola Chiesa di Roma si conserva il Santo Evangelo e tutte le verità che sono congiunte in esse per divino diritto»; e ammoniva: «chiudete la bocca a coloro che gridano libertà, libertà, e trattateli da stupidi». Tale atteggiamento gli aveva accattivato la simpatia di legittimisti francesi e di elementi reazionari contrari all’unità italiana, nonché di sacerdoti ultraconservatori d’oltralpe, che credettero di riconoscere in lui il «grande monarca» discendente dai re di Francia e predestinato alla grande restaurazione del trono e dell’altare.
In realtà, benché questi ambienti conservatori non se ne fossero resi conto, David non tardò a prendere le distanze dalla Chiesa di Roma. In quello stesso 1868 riuscì ad avere un incontro con Pio IX, che invitò a farsi promotore della rigenerazione della Chiesa, ma da cui ebbe una risposta vaga e paternalistica che lo deluse profondamente. La sua esaltazione mistica crebbe ancora nel 1869, quando si fece addirittura murare in una grotta di Montorio per 47 giorni, cibandosi di pane di granoturco che gli veniva gettato attraverso un pertugio. Sempre nel 1869 fondò l’Istituto degli Eremiti, primo nucleo del suo movimento, di cui rappresentò sempre la parte essenziale, formata dai credenti più impegnati e fedeli, paragonabili a coloro che tra i Catari, avendo raggiunto il grado più alto di iniziazione alla gnosi, erano definiti i «perfetti». Sul Monte Labbro (che d’allora egli ribattezzò Làbaro) iniziò con i suoi seguaci la costruzione di una grande torre nuragica. All’inizio del 1870, visse per un mese come eremita nell’isola di Montecristo, di cui era l’unico abitante. In quell’anno, i suoi discorsi profetici sulla fine del mondo, e cioè, nella tradizione millenarista, la fine del sistema basato sullo sfruttamento e sull’ingiustizia, con l’imminente istituzione della «Repubblica Celeste», gli procurarono le prime persecuzioni: fu incriminato per sedizione, ma poi prosciolto. David aveva infatti incontrato il messaggio messianico delle presunte lettere di san Francesco da Paola: uno scritto apocrifo pubblicato dagli ambienti reazionari, ma che conteneva invettive nei confronti dei «prelati avidissimi alla rapina per divorare le pecorelle di Gesù Cristo ed i beni di Santa Chiesa senza mai ricordarsi dei poveri di Gesù Cristo benedetto»; in quelle predicazioni, si diceva anche che «Iddio onnipotente esalterà un uomo poverissimo del sangue di Costantino imperatore e del seme di Pepino il quale porterà in petto il segno della croce».
Il suo prestigio tra i compaesani cresceva: era riconosciuto da molti come il profeta destinato a «guidare il suo popolo alla rigenerazione». Nel 1871, accanto all’Istituto degli Eremiti, David fondò la Santa Lega e Fratellanza Cristiana che riuscì in poco tempo a organizzare tutti gli abitanti dei villaggi vicini, nella prospettiva di migliorare radicalmente le condizioni di esistenza delle masse contadine della zona, con la finalità di assistere i membri ammalati e indigenti, gli orfani, le vedove e persino i viandanti ammalati. Con un fondo comune, costituito dai contributi dei soci, si acquistavano generi alimentari all’ingrosso per rivenderli al prezzo di costo. Una «cooperativa» ante litteram, regolata e gestita democraticamente (alla cui direzione era riservato un posto per una donna), che sopravvivrà alla morte di Lazzaretti. Nel 1872 Lazzaretti realizzerà il suo più ardito tentativo di adeguare le strutture sociali ai dettami evangelici, fondando la Società delle famiglie cristiane. Il regolamento proclamava che scopo della Società era «formare di tante famiglie una sola famiglia comune». In effetti, più di 8o famiglie misero in comune i terreni, il bestiame, i risparmi e il lavoro, ricevendo dalla Società il cibo, l’istruzione per i figli e il vestiario. Furono così aperte le prime scuole rurali nella zona: i due sacerdoti che avevano aderito al movimento del Lazzaretti vennero regolarmente assunti dalla Società, nella quale, come sottolinea giustamente Antonio Moscato, forse per la prima volta le donne ebbero diritto di voto ed elessero proprie rappresentanti a pari titolo con gli uomini. Poiché oltre alle 80 famiglie aderirono anche braccianti, sarti, falegnami, muratori, scalpellini, carrettieri e pastori, si dovettero affittare grandi appezzamenti di terreno da coltivare in comune nella zona dell’Amiata. I membri della Società avevano una specie di uniforme: indossavano abiti di lana color cenere, e sul cappello portavano un cordone a tre giri con cinque nodi («come le piaghe del Signore e i nodi della verga di David»). Sulla facciata delle case di proprietà dei soci fu murata la sigla che David portava sulla fronte: )†( , che diceva essergli stata impressa da san Pietro in una delle prime visioni. La predicazione apocalittica di David, che prediceva, secondo la tradizione millenaristica, la fine del mondo e quindi del sistema fondato sullo sfruttamento e sull’ingiustizia, non mancò di procurargli persecuzioni. Incriminato per discorsi sediziosi, fu prosciolto nel 1870 e poi ancora nel 1874 dalla Corte d’Appello di Perugia (dove fu difeso dall’avv. on. Mancini). Ma nel 1873, durante il periodo di detenzione, i due amministratori della Società, scelti tra i «competenti» – che erano anche i più abbienti – approfittarono dell’assenza di David per appropriarsi di parte dei beni comuni, la cui proprietà non poteva essere intestata alla Società poiché a quel tempo la legislazione italiana non riconosceva gli istituti cooperativi. Così, dopo soli due anni, si sciolse la Società, che pure aveva esercitato una feconda attività. Nel 1875, avvertito che si stava preparando un nuovo processo, il Lazzaretti si rifugiò in Francia; ciò comportò una nuova crisi delle attività economiche (sempre per problemi di intestazione dei beni): David decise pertanto di sospendere ogni attività e di dividere il ricavato tra tutti i membri rimasti fedeli. La protezione riservatagli dagli ambienti legittimisti francesi presentò il Lazzaretti come catalizzatore eventuale di un’armata contadina della restaurazione dello Stato pontificio: ci fu in effetti un tentativo fallito di strumentalizzarlo in tal senso.

Il profeta, nel suo Libro dei Celesti fiori, riprendeva la famosa «divisione dei tempi» secondo la dottrina millenaristica di Gioacchino da Fiore e anche sostanzialmente degli Apostolici del Segarelli e di Dolcino: l’imminente età dello Spirito, dopo quella del Figlio, e cioè della venuta di Cristo, e del Padre, quella dell’Antico Testamento e dei profeti. I due sacerdoti collaboratori di David furono sospesi a divinis; il profeta fu convocato a Roma dal Sant’Uffizio, dove lo si convinse a una temporanea generica ritrattazione, ch’egli poi disconobbe, riaffermando di essere «il Gran Monarca, Cristo, Duce e Giudice» e quindi un’autorità superiore a quella del papa, per cui era nulla la sanzione contro i due sacerdoti; la «condanna della Chiesa» divenne per David e per i suoi seguaci «condanna alla Chiesa». Proclamò l’abolizione della confessione auricolare, la temporaneità delle pene infernali e la fine del celibato ecclesiastico, unitamente all’impegno di riscattare con l’aiuto di Dio le condizioni materiali e spirituali dei contadini. Rientrato in patria dopo un breve soggiorno in Francia, nel luglio 1878 annunciò che il 14 agosto «si sarebbe manifestato al popolo latino» per dare inizio all’era della Riforma dello Spirito Santo. In una serie di «editti» disegnò una nuova società ideale senza l’ingiustizia e l’egoismo dominanti, insiti nel concetto di proprietà: tutto ciò che appartiene alla creazione è stato donato dal Creatore come bene comune a tutta la progenie degli uomini. È evidente che un tale «socialismo mistico» preoccupasse i benpensanti e le «autorità costituite». Il movimento, composto all’inizio di piccoli proprietari e artigiani rurali, poteva ormai contare anche su braccianti e mezzadri. Gli «evviva alla repubblica», anche se «celeste», suonavano di sfida al regno d’Italia. David veniva ormai «decodificato» dalle classi egemoni e dirigenti come «socialista» affiliato persino all’Internazionale, benché egli avesse sempre usato il termine «socialista» in senso negativo, dato che attendeva la sconfitta dell’ingiustizia sulla terra da una soluzione soprannaturale. Ma la campagna allarmistica darà i suoi frutti, quando il 18 agosto, in occasione di una grande processione che scendeva dal Monte Labbro, un bersagliere colpirà in pieno con una fucilata David Lazzaretti, fermo, a braccia aperte nel gesto rappresentante la croce. Gli storici sono propensi a credere che il ricorso alla forza, per stroncare il movimento, sia stato suggerito direttamente dal ministro degli Interni per porre fine alla «sedizione». Il delegato della polizia di Stato De Luca, che aveva ordinato di far fuoco sulla processione inerme, sarà infatti decorato al valor civile, proprio come, vent’anni dopo, sarà decorato il generale Bava Beccaris per aver sparato a Milano sui mendicanti in attesa di una scodella di minestra offerta dai frati!

Se la Società delle famiglie era già stata sciolta nel 1875, la Santa Lega o Fratellanza cristiana continuerà ancora nel nostro secolo, sino a quando sarà sostituita dal sindacalismo confederale, la Società degli Eremiti si trasformerà nella piccola comunità religiosa tuttora viva ad Arcidosso e a Poggio Marco si conserva tuttora l’archivio della «chiesa giurisdavidica». I seguaci di Lazzaretti divennero tutti in politica ardenti repubblicani; e poi la quasi totalità dei giurisdavidici appoggiò il Pci fin dalle prime elezioni del dopoguerra.
A Roma si formò un piccolo gruppo di neo-giurisdavidici riuniti intorno a una «veggente», tuttora in vita, Elvira Giro. Dopo un tentativo di fusione con il gruppo originario dell’Amiata, quest’ultimo non volle avere alcun rapporto con i «romani», molto diversi, che pretendevano di trasformare radicalmente il lazzarettismo. «La Chiesa giurisdavidica di Monte Labbro continua nella sua autonomia di fede sotto la guida di Turpino Chiappini, Aristodemo Fatarella ed altri confratelli», come ebbe a scrivermi nel 1978 – l’anno del centenario del tragico epilogo – lo stesso Chiappini, residente a Zancona di Arcidosso. Sull’Amiata esiste tuttora la torre e l’eremo innalzati sotto la guida del Lazzaretti e restaurati dal gruppo romano che, nel 1975, poco sotto la punta del monte ha eretto un edificio a tre piani (per sistemarvi l’Altare della Grande Madre) che secondo Moscato deturpa non poco il paesaggio. Il gruppo romano ha ottenuto il riconoscimento come «chiesa» e pubblica saltuariamente il periodico «La torre davidica» nonché una serie di quaderni della gnosi di Elvira Giro (una specie di moderna Guglielma Boema?). I lazzarettisti dell’Amiata continuano tuttora i loro culti.

Vanno sottolineati alcuni aspetti del contesto in cui è nato il movimento del messia dell’Amiata. Inizia negli anni del peggioramento delle condizioni nelle campagne conseguente all’Unità d’Italia, il cui costo economico è stato pagato grazie alla Cassa depositi e prestiti che attingeva ai magri risparmi depositati dai contadini agli Uffici postali, alle rimesse degli emigranti, all’accumulazione di capitali dovuta allo sfruttamento del lavoro minorile e femminile e, in generale, ai salari operai di mera sussistenza. Giunge alla rottura con la società nel 1878, anno pressoché catastrofico nel settore agricolo. In quello stesso periodo il parroco di Lentinio (Matera) incita il suo gregge a far causa comune con gli anarco-internazionalisti rivoluzionari, «veri apostoli mandati dal Signore per predicare le sue leggi divine» (aprile 1877; il 1878 sembrava dovesse essere l’anno dell’insurrezione anarchica e proprio nell’agosto si celebrarono i processi per il tentativo rivoluzionario nel Matese).
Per altro verso, siamo in un periodo di dilagante profetismo. In quel medesimo 1878, una povera giovane donna di Sordevolo, paesetto dell’alta valle dell’Elvo in provincia di Biella, che si chiamava Maria Illuminata Massazza, pubblicava in un suo paradossale libro devozionale le rivelazioni avute dallo Spirito Santo. Corrispondeva con il Padre Eterno e con san Pietro e, venerata già in vita come santa, riuniva intorno a sé una confraternita «paleocarismatica» formata soprattutto da donne. Era protagonista di una religiosità cattolico-popolare non gradita dai parroci e dai vescovi via via succedutisi nel tempo, dato che la devozione delle «sante» è giunta sommessa e sommersa sino ai nostri giorni. Anche questa profetessa analfabeta (il libro fu scritto sotto dettatura da volonterose «segretarie» piemontesi monolingui per le quali comprendere e esprimersi in italiano era quasi un miracolo di glossolalìa), pur professandosi devotissima fedele cattolica, non risparmiava strali alla Chiesa romana. Dio, infatti, così le avrebbe parlato: «Dunque perché è essa [Maria Illuminata] povera, da tutti è beffeggiata e da tutti calpestata sì da molti è ingiuriata che persino gli bramano la morte tutti i giorni di più i quali sono tutti i studenti increduli ed ancor molti del Clero […]. Se fosse stata una Suora oppure una Regina di terra l’avreste mai abbandonata se avreste creduto Iddio invisibile che nel suo cuore sempre vegliava ma che lo bramava di nuovo come nella capanna di Betlemme io nacqui da mia madre e volli sicuramente abitare nel suo povero cuore […] e voi del Clero credete pure che io in un palazzo non voglio abitare. Giammai palagi di questa terra ne giammai li amerò […] e quel che voglio ancora rimproverarvi voi tutti del Clero che la mia Dottrina è molto alterata». La Massazza morirà due anni dopo, nel 1880. Un profetismo, dunque, che rispecchia lo stato di crisi profonda della Chiesa cattolica. D’altra parte, non si trattava soltanto di profetismo popolare, poiché veniva ufficializzato anche dalla Chiesa di Roma. Dal 1860 al 1874, la «Civiltà Cattolica» pubblica continuamente recensioni e indicazioni su centinaia e centinaia di testi profetici, i miracoli fioriscono dappertutto e dilagano le apparizioni della Madonna (a cominciare dal 1846 alla Salette, alpeggio francese nell’Isère, dove apparve la prima Madonna dispensatrice di profezie apocalittiche). C’era anche una corrente ultraconservatrice, oppositrice di ogni tentativo di riforma liberale nella Chiesa, come quella del sacerdote bolognese Bernardino Negroni (già padre Barnaba, francescano minore riformato), fondatore nel 1878 della rivista «La tromba apocaliptica». Nelle sue memorie, riporta la notizia relativa all’assassinio di David Lazzaretti, indicandolo addirittura come precursore dell’anticristo per la pretesa di apparire quale Cristo reincarnato con i segni opposti  )†( . 

Il Lazzaretti si inseriva in una tradizione profetica anche locale, già manifestatasi nella cultura popolare del territorio grossetano. Infatti, intorno alla prima metà del Cinquecento, si aggirava per le campagne del Senese e dell’Amiata un personaggio cencioso, vestito di rozza tunica, scalzo, con un rosario intorno alla vita a mo’ di cintura in cui erano infilate ossa di morto, con le quali percuoteva un teschio a mo’ di tamburo esortando la gente alla rettitudine dei costumi, affermando vicini la fine del mondo e il giudizio. Si chiamava Bartolomeo Garoni, detto Brandano, il «pazzo di Cristo», a cui vengono attribuite profezie, ma anche insulti al papato corrotto, ai sedicenti cristiani senza morale. Il suo pensiero non verrà mai codificato, ma fissato nella memoria di classe, e molti suoi detti sono attribuiti anche a David Lazzaretti, cosicché nella tradizione popolare sovente i ricordi relativi ai due personaggi si sovrappongono.
Poco prima che iniziasse la vicenda del «messia dell’Amiata», intorno al 1846 risiedeva a Castel del Piano un penitente misterioso, che operava nella montagna, Baldassarre Audibert; la voce popolare lo dice vescovo francese, o ufficiale belga, in realtà sembra fosse un vercellese, Audiberti, stabilitosi nella zona durante un pellegrinaggio verso Roma, e lo descrive come una persona scarmigliata, dall’aspetto molto trascurato. Nulla è rimasto delle prediche di Baldassarre, tranne il ricordo di una sua tendenza apocalittica. 

I fedeli della chiesa giurisdavidica hanno lasciato perdere ogni riferimento al «gran monarca» e alle pretese origini regali del loro fondatore: oggi con orgoglio ricordano che il «Santo David» proveniva dallo «sterco delle strade» e aveva esercitato i più umili mestieri. Se le pretese rivelazioni, gli inni a Maria, i teatrali atteggiamenti, il finire col considerarsi un messia più che un profeta (ma i suoi seguaci della montagna oggi lo ritengono un «santo profeta», lasciando ai «romani» la tesi estrema di riconoscerne una reincarnazione divina), differenziano notevolmente Lazzaretti dagli evangelici delle varie denominazioni che in quegli anni operavano nelle campagne italiane, possiamo invece riconoscere punti di contatto con fra Dolcino, a partire proprio dal comune profetismo millenarista; senza dimenticare tuttavia che le intuizioni radicali del capo degli Apostolici fanno di quest’ultimo un precursore della Riforma (o meglio dell’anabattismo rivoluzionario), piuttosto che una reincarnazione del Messia. A tracciare il parallelo, ci penserà comunque la «Civiltà Cattolica» nel 1978 (p. 78): «Questo sciagurato [Lazzaretti], che tra il falso e l’impostore non sai qual fosse più, era riuscito a fondare una nuova setta, non punto dissimile da quella del fra Dolcino mentovato dall’Alighieri nel canto XXVIII dell’Inferno, ed ebbe a finire di mala morte come fra Dolcino. Lo scopo della setta era una specie di socialismo e comunismo fin nelle donne, che dovea cominciare con spartire ugualmente fra tutti le proprietà dei possidenti, e finire con la sostituzione del Lazzaretti a ogni autorità divina e umana che sia su questa terra […]. Lazzaretti era, in fondo in fondo, un socialista, il quale per gabbare i villani e trarseli dietro a compiere l’impresa procedeva in maschera di cristiano». Senza alcuna pietas cristiana, quasi gongolando per la mala morte (a opera di chi? Forse il Cristo ne fece una migliore?), rimasticando decrepite accuse agli eretici (le «donne in comune».., perché alla Chiesa di Roma ripugna la parità «eretica» tra i due sessi), cent’anni dopo l’assassinio di Stato i custodi dell’ortodossia cattolica non hanno riveduto di una virgola il loro giudizio.
La testimonianza di David fu, come quella di Dolcino, originale nella proposta vissuta di una nuova società di liberi e di uguali. Entrambi riuscirono, sia pur per breve tempo, a realizzarne un modello, sulla falsariga del primo comunismo cristiano. Per questo furono uccisi. Per questo, ecumenicamente, si perdona a Lutero, ma non a fra Dolcino, a Tommaso Mùntzer, a David Lazzaretti. I quali, d’altra parte, non chiedono di essere perdonati.   


Per maggiori notizie e la bibliografia:

Studio bibliografico su DavidLazzaretti, profeta dell’Amiata, a cura di Leone Graziani, La Torre Davidica, Roma 1964. – Arrigo Petacco, Il Cristo dell’Amiata. La storia di David Lazzaretti, Mondadori, Milano 1978. – Antonio Moscato, DovideLazzaretti: il messia dell’Amiata, Savelli, Roma 1978. – Davide Lazzaretti e il monte Amiata. Protesta sociale e rinnovamento religioso. Atti del Convegno di Siena e Arcidosso, 11-13 maggio 1979. A cura di Carlo Pazzagli, Nuova Guaraldi, Firenze 1981. – Tavo Burat, El liber rivelà da lë Spìrit Sant, in «Armanach piemontèis – Almanacco piemontese 1980», Viglongo, Torino 1979, pp. 159-170 (su Maria Illuminata Massazza). 

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Le rivolte dei “Tuchini”


Il tuchinaggio occitano e piemontese

Tavo Burat

Saggio pubblicato in “La Rivista Dolciniana” n. 23, Roma 2003

Toun istòri, te l’àn counta d’arebous
La tua storia, te l’han raccontata al contrario
Federico Mistral

In Italia, con il termine “Tuchini” (piemontese, Tuchin con la u francese) s’intendono i ribelli del Canavese e della Valle d’Aosta dalla fine del secolo XIV alla metà del XVI. Alcuni vorrebbero derivare il termine da tucc-un (“tutti per uno”); altri dai vecchi verbi francesi athutiner o atouchiner, che significherebbero complottare, intrigare, altri ancora, come Charles Ducange (grande erudito, studioso del basso-latino, 1610-1688), da tuchia o touche per (parte, porzione di) foresta, cosicché sarebbe uomo della foresta”. Ma a parte il passaggio dalla “u” (ou francese) alla “ò” di tòch/pezzo, alla ufrancese di tuchin che non convince, lo strano è che non si pensi al fatto che troviamo prima che in Piemonte la parola tuchien in Francia (Alvernia e Linguadoca) dove cane si dice chien, e tuchien/tue-chien significa ammazza-cani”, non tanto perché quella povera gente, disperata e furiosa, mangiasse carne di cane (anche se ciò era certamente possibile), ma soprattutto perché ammazzare i cani dei padroni era un atto di ribellione. Infatti conti e baroni volevano imitare i principi: se Amedeo VII di Savoia aveva ottanta cani, pure loro ne volevano avere altrettanti; cani che non erano soltanto da guardia, ma che sovente facevano strage di pecore, capre e pollame dei contadini, che dovevano tacere e sopportare i danni. Non soltanto, ma in alcuni luoghi vigeva lo jus brenagi, cioè il diritto del feudatario di imporre tasse per il mantenimento dei cani[1]. Facile da capire, quindi, che una delle prime ribellioni consistesse proprio nell’uccidere i cani dei feudatari. Tuchiens, quindi, sta per “scalzacani” in tutti i sensi, concreto e traslato (per “poveraccio”, “mascalzone” ecc.) che il termine comporta.
Troviamo nella storia, per la prima volta, menzionati i Tuchiens nel 1361, quando il capo Séguin de Badefol conquista in alta Alvernia i castelli nei dintorni di Mende e di Puy. Soltanto tre anni prima (1358) nel nord della Francia era scoppiata la rivolta dei Jacques Bonhomme (la Jacquerie, dall’appellativo che con disprezzo i nobili francesi davano al contadino francese). Ma se la Jacquerie dura soltanto dodici giorni (con un massacro di ventimila poveri rustici), i Tuchiens faranno una guerra di più di vent’anni, destinata ad estendersi sino alle Alpi piemontesi, dove non si darà per vinta che alla metà del secolo XVI poiché, come rileva lo storico occitano Gérard de Sède
[2], i Jacques Bonhomme dell’Oise (Francia del nord-est) hanno fatto un’insurrezione contadina disperata, senza la minima organizzazione (come “branco di lupi”), i Tuchiens hanno avviato una vera e propria guerra, coinvolgendo anche artigiani e commercianti, persino nobili, dimostrando che c’erano gruppi di cospiratori diffusi e organizzati e che, se cause erano la miseria, la carestia, la crisi economica e dell’agricoltura, travolta dal consumo di vino, pelli, tessuti di lana, fatto dalla borghesia che comprava i terreni, con la conseguenza che si formavano latifondi non curati, destinati a finire in gerbidi, e a ridurre i contadini sul lastrico[3], di cause ve n’erano anche altre: una “resistenza” che potremmo definire “nazionale” o, meglio, “etnica”, considerando che la popolazione dell’Alvernia non era “francese”, e che quella della montagna (del Massiccio Centrale, ma anche delle Alpi) aveva una civiltà “altra” rispetto a quella della pianura, espressione del diritto romano e feudale (proprietà privata, invece di terra comunitaria; ordine e obbedienza, invece di decisioni collettive prese all’ombra del grande olmo sulla piazza; religione come supporto del potere, anziché radicata nel culto della terra, madre di tutte le creature; tradimento dell’autentico messaggio evangelico…).
Iniziata in Alvernia, l’insurrezione rapidamente si estese nel Velay, Rouergue, Vivarese, Linguadoca, Provenza e Lionese, da dove poi dovrà passare in Piemonte e Valle d’Aosta.
Nel 1363, due contadini di Luzers (nei pressi di Bonnac, cantone di Massiac, nel Cantal), indicono una grande assemblea di “compagni”, a Girenge, nella cascina detta della Garipo, dandoci già l’idea che l’organizzazione della rivolta si regge sulle Badie o “società dei giovani” o “dei compagni”, istituzione molto importante dell’antica civiltà degli uomini liberi e che troviamo al primo posto nell’impegno di mantenere vive le tradizioni, e le feste legate alla terra e alla religione naturale (coltura, cultura, culto…, parole dallo stesso etimo
[4]). In quell’anno, Séguin de Bedefol conquista anche la città di Brioude (Alta Loira); e Giovanni, duca di Berry, figlio di re Giovanni II (1319-1364) e fratello del futuro re Carlo V (1337-1 380), governatore dell’Alvernia, per rientrare nella città deve pagare un forte riscatto. Questo duca di Berry; detto “il Magnifico” (1340-1416), era un giovane prepotente, voglioso di sfruttare i suoi sventurati sudditi, già a mal partito in quanto la Linguadoca, confinante con l’Aquitania soggetta al re d’Inghilterra, era messa a ferro e fuoco dagli eserciti inglesi e francesi durante la guerra dei cento anni in corso.
Nel 1379, Montpellier insorge, e quando viene nuovamente occupata dal duca di Berry si scatena una sanguinosa rappresaglia: seicento abitanti sono decapitati o impiccati, e ai restanti vengono requisiti tutti i beni. I Tuchiens soffiano sul fuoco e attaccano ovunque gli uomini del duca. Comandati da un contadino, Pèire Césaroun, da un gentiluomo, Géraud de Brusac, e da un nanerottolo orbo e deforme, detto Coupet, assaltano i castelli dalle parti di Albi, Montauban e di Tolosa. Nel 1381 il duca è battuto a Revel e a Rabastan (Tarn): lui, fratello di re Carlo V (succeduto al padre nel 1364), è costretto a scappare come una lepre, inseguito dai contadini occitani! È allora che un uomo di Rabastan grida: «Rei de Fransa, rei de figas, rei de rnerda!» e per quell’ingiuria sarà in seguito condannato a morte.
L’insurrezione è ormai generale, e si può dire che l’Occitania è in guerra contro la Francia: è la seconda volta, dopo la conquista compiuta con il massacro dei Catari. La prima grande insurrezione fu infatti quella accesasi a Carcassonne (1303-1304) da fra Bernardo Deliciosi (in francese Délicieux)
[5]. Pungolato dal sogno di giustizia e di liberazione, egli aveva camminato lungo le strade occitane predicando al popolo contro l’inquisizione. In quel medesimo 1304, Dolcino era alla testa degli insorti valsesiani… E anche la guerra dei Tuchiens ha avuto il suo “fra Dolcino” in Occitania: Jean de la Roquetaillade (Johannes de Rupescissa), un altro francescano rivoluzionario che, vent’anni dopo fra Bernardo (finito murato vivo nella sua Carcassonne, da Giovanni XXII), negli anni 1340-1344, in nome della povertà di Cristo e del messaggio liberatorio del Vangelo, si era scagliato contro i Domenicani – che egli definiva “gli eretici di mammona” – e tutti coloro che davan man forte ai potenti assisi sui loro troni[6].
Nel 1385, Pèire de Bruges, piccolo nobile della valle dell’Aude, passa dalla parte dei Tuchiens, e diventa il loro primo capitano. Ma la repressione è terribile: al capo ribelle Jean de la Viulte, catturato, bruciano i piedi e poi lo gettano vivo nel fondo di un pozzo. A Vézenobres, i Tuchiens, piuttosto che arrendersi, si suicidano gettandosi dalle mura. Nel 1384, la borghesia e i nobili che speravano di liberarsi dal giogo francese, vedono la causa ormai perduta e abbandonano i Tuchiens, rimasti soli a battersi contro l’armata del re. In primavera, muore in battaglia nell’alta Alvernia Pèire de Bruges; lo sostituisce al comando dei ribelli Guilhelm Garcìa, unitamente a due nobili, il Signore di Perthuis e Jean de Dienne, che tenta un’alleanza antifrancese con gli inglesi giunti in Alvernia. Dopo una bella vittoria ottenuta a Brodassol, il De Dienne è battuto dalle milizie della borghesia di Saint-Flour, comandate dal vescovo locale in nome del re, e viene giustiziato. Anche il capo contadino Pèire Cesaroun finisce al boia, tradito dal superiore del convento di Vaour. Luigi II di Borbone (1337-1410), marito di Anna di Clermont, “delfina” d’Alvernia, fa gettare tutti i Tuchiens prigionieri in una grande buca colma di brace ardente, e li fa arrostire vivi. A Mentières (giugno 1384) i Tuchiens sono battuti nell’ultima battaglia, quella della disperazione. I capi Guilhelminet, Akamargot e Cédrin cadono in combattimento; Cédrin, catturato, è bruciato vivo. Ha così termine la guerra dei Tuchiens occitani.

Due anni prima dell’insurrezione di Montpellier (1379), i Biellesi si ribellano al vescovo Giovanni Fieschi, vescovo di Vercelli e conte, non più sopportando le sue prepotenze. Sono trascorsi esattamente settant’anni dalla cattura di fra Dolcino. Nei boschi ancora di proprietà comunale, nel Barazzetto, verso la Burcina, dov’è una cappella dedicata dagli eremiti a San Paolo, in maggio (il giorno del calendimaggio, quando si fa la festa del piantamento dell’albero?), Grìbolo della Torrazza, capo dei “giovani” (l’abà?) del Piazzo di Biella, prepara il piano per catturare il vescovo. La cronaca racconta che, approfittando del fatto che il vescovo apprezza molto la selvaggina, i giovani fingono che nel bosco sia stato avvistato un grosso cinghiale, e riferiscono l’avvistamento alle guardie di palazzo, le quali abbandonano il loro servizio innanzi al castello per dare la caccia all’animale. Allora Grìbolo e i suoi giovani entrano nel palazzo e catturano il vescovo Fieschi, ancora a letto, lo fanno scendere e così com’è, nudo, lo legano in groppa a un asino facendoglielo cavalcare al contrario (la testa rivolta alla coda dell’animale), e lo conducono, dileggiandolo, innanzi alla “credenza” (il consiglio). La leggenda vorrebbe che i Biellesi poi l’avessero scannato, e mangiato per “merenda sinòira” con i cavoli, dopo avergli fatto perdere il “sentore” di selvatico lasciandolo per qualche tempo nell’acqua corrente della roggia. Benché tutto fosse possibile a quei tempi (quando per fame si giungeva a cibarsi di carne umana, dei nemici o persino dei bambini: le storie degli orchi ne sono una testimonianza appena mascherata), ciò è falso, perché Giovanni Fieschi è morto nel suo letto, due anni dopo a Roma, fatto cardinale da papa Urbano VI[7].
Come sempre accade, i potenti approfittano dell’insurrezione, segretamente appoggiata dai signori biellesi, persino da canonici come Ardizzone Collocapra che prepara l’ingresso dei Savoia a Biella. Infatti, appena il vescovo è fatto prigioniero, giunge a Biella il conte valdostano Ibleto di Challant (uomo di fiducia e ministro del duca Amedeo VI) che lo conduce nel suo castello di Mongiovetto, pone uno Challant (suo fratello) a podestà di Biella e convince i ribelli ad accordarsi con il Conte Verde che compensa con 30 fiorini d’oro il Canonico.
Anche Andorno, nella valle del Cervo, si ribella: quando sanno che il vescovo è prigioniero, i valligiani prendono d’assalto il castello e lo saccheggiano, come è accaduto a Biella, depredando tutto ciò che trovano nelle sale del Vescovo-Conte. Anche Andorno aveva la sua Badia, come risulta da una scheda di Quintino Sella che annota l’esistenza della bandiera, al XVI secolo, dell’abà di colà.
I Challant hanno ben lavorato per i loro padroni: due anni appresso (1379) le repubbliche di Biella e Andorno (29 ottobre) si danno ai Savoia, che così estendono i confini dei loro stati. Occorre dire che se il territorio dei Savoia è al sicuro oltralpe, in Piemonte (ad eccezione della Val Susa, che non dà problemi) si devono fare i conti con lo spirito di libertà che da sempre anima i montanari (valdostani, canavesani, biellesi ecc.) e, in pianura, con le famiglie dei Signori che posseggono una storia non meno illustre dei Savoia, i quali non hanno diritti feudali da far valere nei confronti di quelli.
Per comprendere il “tuchinaggio” piemontese occorre pertanto ben considerare il contesto del momento: da una parte, fame e miseria dei montanari, che rifiutano il “sistema” (leggi, economia, cultura, organizzazione) della società che sta preparando la formazione dello Stato moderno; dall’altra, giochi politici dei nobili, divisi tra coloro che salivano sul carro sabaudo dei vincitori e quelli che, estromessi, aizzano la povera gente, la cui rivolta è usata, maneggiata dagli uni per estendere il proprio potere e dagli altri per riconquistarlo. Non possiamo pertanto concordare con chi vede nel tuchinaggio soltanto un episodio della guerra di guelfi (i San Martino, i Castellamonte), amici dei Savoia, contro ghibellini (i Sangiorgio, i Valperga, i Masino), travestiti da Tuchini
[8]. Se le rivolte di Biella e di Andorno del 1377 possono essere considerate, come quella di Montpellier, i primi episodi del tuchinaggio; e se già nel Canavese nel 1374 il Marchese del Monferrato sosteneva i signori di Valperga (ghibellini) contro i San Martino (guelfi) alleati dei Savoia, che premevano per estendere i loro domini in Piemonte, è però nel 1385 che la rabbia montanara (già esplosa in Valsesia con Dolcino, 1304-1307, e a Chieri, 1336-1339) straripa in Valle d’Aosta e in Piemonte.

Il duca di Berry, Giovanni “il Magnifico”, non fa neppure a tempo a rallegrarsi per la vittoria di Mentières, che avrebbe dovuto eliminare per sempre il tuchinaggio, quando, un anno dopo, sua figlia Bona, andata sposa ad Amedeo VII di Savoia, il “Conte Rosso”, invoca soccorso: i Tuchini spariti in Occitania, compaiono come per miracolo in Piemonte.
Come già avvenne in Occitania, dove l’insurrezione ha avuto luogo in una regione di confine (l’Alvernia, provincia di frontiera con l’Aquitania, soggetta alla corona inglese), in Piemonte levano la testa i montanari al confine tra lo Stato dei Savoia e i Signori piemontesi indipendenti. I primi ad insorgere sono i montanari di Pont Canavese (1385): ne approfitta Teodoro TI marchese del Monferrato, che esige il giuramento di fedeltà anche dagli abitanti delle vallate. Il Conte Rosso non può accettare che il Marchese rinforzi il suo potere dove i Savoia mirano di giungere, e manda i suoi soldati. I montanari ribelli si trovano tra due fuochi, e non ne vogliono sapere di Signori che giungono per sopprimere le loro libertà: tosto si ribellano anche Strambino, Romano Canavese, Scaramagno, Valfré, Perosa Canavese; San Martino, Torre Canavese, Castellamonte, Baldissero, Parella, Lessolo; le valli di Brosso e di Chy (e con questi due paesi, Trausella, Drusacco, Novareglia, Meugliano, Rueglio, Gàuns, Issiglio, Vistrorio, Villa, Muriaglio, Vico, Campo, Castelnuovo, Borgiallo); la val Soana (Frassineto, Ingria, Ronco, Campiglia); la valle Orco (Ceresole, Noasca, Soana, Ribordone, Sparone, Pont); Cuorgné, S. Colombano, Canischio, Prascorsano, Cavagna, Salassa, Barbania, Front, Andrate e, fuori dal Canavese, sulla Serra biellese, Sala, e giù nella pianura vercellese, Bianzé. Nel Monferrato, Cono dà ospitalità ai Tuchini; tentativi di rivolta ci sono a Montaldo Dora e Cirié. I castelli di Brosso, Chy, Lèssolo, Strambinello, Loranzé, Montesrutto, Scaramagno e Castellamonte sono presi e distrutti; a Brosso e a Castellamonte i feudatari fanno una brutta fine; in val di Brosso ancor oggi mostrano il “piano delle battaglie”, e la collina da dove avrebbero precipitato il feudatario, e il “piano delle forche”, dove sono stati impiccati i prigionieri al termine della rivolta. Non ci vuol molto a che i ribelli si trovino chiusi nelle loro valli, senza la possibilità di ricevere rinforzi e provviste; il Conte Rosso proibisce a tutti di dar rifugio e cibo agli insorti; ma quelli di Cogne, in val d’Aosta, riescono comunque ad aiutare i fratelli valsoanini, mandando armi e provviste.
Le bande di Tuchini sono formate da disperati, mezzi nudi, soltanto ricoperti da alcuni stracci (ché a quei tempi neppure i signori portavano la camicia), rossi come il famoso berretto che portavano in capo e che 400 anni dopo diventerà simbolo della grande rivoluzione. Non ci sono primi comandanti, come invece sembra ci siano stati in Occitania; piuttosto, ogni comunità aveva una compagnia di giovani con il suo capo, l’abà. Dai primi processi, veniamo a conoscenza di alcuni nomi. Tra il 1387 e l’89, hanno tenuto in carcere per 68 settimane, e poi, con una grossa catena al collo, trascinato alla forca del conte di Cirié, Giacomo Pich[9]. L’11 dicembre 1390, Bonifacio di Challant, castellano di Bard in valle d’Aosta, ha prelevato a Ivrea sei Tuchini: Martino, detto “il bastardo di Challò”; Francesco, detto “Malacarn”; Vola, da Castelnuovo; Giovanni Rusa; Martino, figlio di Piero Piazza; e Giachetto, detto “l’Oysel” (l’uccello)[10], e impiccati. A Ivrea sono stati pure impiccati (gennaio 1391): Pietro Pichon, Giovanni Bianchetto, Giovanni Castargi, Pierino de Facio, Giacomo della Perina, Giacomo Camaria e Anselmo Pilato[11]. Se la sono cavata con il pagamento di ammende: Marco d’Ambrogio e Antonio Galliano[12]. A. Bertolotti[13] riporta elenchi di nomi di coloro che hanno dovuto pagare ammende per essere stati coinvolti, in un modo o nell’altro, nella ribellione. Anche le donne si sono date da fare (non dimentichiamo che con Dolcino era Margherita…), come quella di Graziotto Paré (di Lanzo), Alaina Pelotta e una certa Montanegra, valsesiana attiva nella ribellione di Montestrutto (sulla strada per Settimo Vittone).

Quando, come abbiamo visto, nel 1386 la rivolta è divenuta generale, la vedova del Conte Verde e madre del Rosso, Bona di Borbone, manda Ottone di Grandson per organizzare la repressione. Benché qualcuno dei ribelli gridi “Vivat Savoya et populus”, sembra chiaro che la rivolta sia strumentalizzata da Teodoro II di Monferrato e dai Signori suoi amici, in concorrenza con i Savoia miranti ad allargare il loro dominio. Facino Cane (Bonifacino, nato a Casale verso il 1360, morto a Pavia nel 1412) aiuta i Tuchini e fa le prime esperienze di capitano di ventura, giungendo sino ai dintorni di Santhià. Il 15 maggio, Teodoro II conquista Balangero, e persino Torino è minacciata. Il principe Amedeo Savoia di Acaia organizza la difesa sabauda sulla linea del Sangone, da Rivalta a Moncalieri, e rinforza la posizione di Gasso, Carignano, Vigone e Chieri. Il 10 giugno 1386, da Parigi il Conte Rosso giunge a Cirié, e apprende che il marchese del Monferrato ha posto l’assedio a Verrua, aiutato anche da Enrico di Saluzzo e da Gian Galeazzo Visconti. Amedeo VII riconquista Balangero, attacca Corio, intanto che Ibleto di Challant, come aveva fatto a Biella e ad Andorno nel 1377, si reca nel Canavese per convincere i ribelli ad accettare la protezione dei Savoia. Infatti il 9 luglio il Challant stipula la pace con i Tuchini della val di Brosso, che denunciano la tirannia del conte di San Martino, sotto il mantello dei Savoia. Il 28 luglio, il Conte Rosso conferma gli accordi. Ma da lì a poco, la ribellione continua perché dai patti sono rimaste escluse le valli di Pont, Soana e di Chy; e perché i San Martino, sotto il mantello dei Savoia, continuano imperturbabili a fare come prima, e intendono vendicarsi. Il Conte Rosso per due anni va e viene dal Canavese, nel tentativo di risolvere le controversie; il 5 agosto, dà una gran cena a Ivrea; in quell’occasione si danza la moresca, un’antica danza simile a quella degli spadonari ma con l’uso di bastoni. Negli anni tra il 1390 e il ’91, si giunge ad accomodamenti con le comunità; e il Tuchinaggio, cominciato nell’Alvernia occitana trent’anni prima, sembra finito. Da Sala biellese alla val Chiusella si inalberano forche dove pendono i più ostinati e rabbiosi, che avevano percorso le valli di notte, al chiarore della luna, armati di tridenti, forche, roncole e falci per cercare di organizzare, con la forza della disperazione, la resistenza a un potere feudale che avrebbe finito con l’estinguere la civiltà selvaggia dell’uomo delle Alpi[14].

Ma il Tuchinaggio non era morto. Già nel 1395, il Conte Rosso obbliga le comunità della valle di Pont a pagare grosse somme per aver appoggiato ancora i Tuchini.
Nel 1441, troviamo in pieno svolgimento il Secondo Tuchinaggio, che durerà più di un secolo. I nobili fanno prigionieri, tra i ribelli di Noasca, Locana e Ceresole: Matteo Perotti, Pietro dei Guglielmi, Pietro Vitonà, Giovanni Giletti. I montanari debbono chiedere perdono e trovare un accomodamento con i Signori: una sentenza arbitrale condanna a pagare in solido 300 formi d’oro in tre anni i paesani di Pont ritenuti colpevoli
[15]. Ma purtroppo quando un Principe muore, il successore dimentica i patti firmati dal precedente, e ai montanari tocca sempre pagare per la conferma. Altrimenti non resta che riprendere la lotta. Così Ludovico di Savoia si rimangia le franchigie riconosciute alle comunità canavesane, poiché i feudatari lo pagano al fine di farle revocare. Una delle vertenze tradizionali concerne il patrimonio delle vedove, che le comunità volevano amministrare, e che i feudatari pretendevano di ereditare. I Tuchini si ribellano. Nel 1448, i Signori fanno di tutto per estirpare il Tuchinaggio da Pont, Locana, Ceresole, dalle valli dell’Orco e di Brosso.
Il 15 settembre del 1447, gli uomini di Pont e delle valli, che si erano ancora ribellati, promettono di stare tranquilli. Quelli di Pont sono rappresentati da Antonio de Muso, probabilmente un abà, poiché non risulta sia membro della “credenza”, né console. Piuttosto di sopportare le prepotenze dei feudatari, i montanari propongono di pagare 2.000 fiorini d’oro al Duca di Savoia per passare direttamente sotto la sua giurisdizione: anche le valli di Brosso e di Lessolo sono d’accordo. Ma nel 1448 i montanari della val Soana patiscono ancora la prepotenza dei nobili e si ribellano. Il Duca di savoia invia rinforzi contro i Tuchini, che sono chiusi nelle loro valli, senza possibilità di ricevere aiuti e rifornimenti dall’esterno; tuttavia qualcuno vi riesce. Leone Richetta, Giacomo Capra e Domenico Gay, benché il loro paese, Cuorgné, sia in pace sin dal tempo dell’accomodamento del 1391, sono puniti con ingenti ammende per aver aiutato i Tuchini della val di Brosso.
Il 24 marzo 1449, il Duca di Savoia accetta i tributi direttamente da Pont e dalle valli, che versano la prima rata di 2.000 fiorini d’oro e che, in più, s’impegnano per 360 ducati di foraggio annuali. Nel 1450 il Duca emana sentenza contro i montanari di Brosso, di Chy, della Novalesa, di Pont, di Lessolo: a causa della ribellione, le comunità perdono la proprietà dei pascoli e degli alpeggi.
Ma nel 1535 i Tuchini tornano ad alzare la testa in va1 Soana. I montanari si ribellano alle prepotenze, calando a Pont contro i Conti di Valperga che pure, negli anni del primo Tuchinaggio, avevano aiutato nascostamente i ribelli, per timore dei Savoia; ora devono rinchiudersi, con le loro donne e le cose preziose, entro la torre Ferranda che i montanari assediano furiosamente. La ribellione dei soanini dura quattro anni, ed è questo il tempo detto del “Secondo Tuchinaggio”. Più d’una volta, i Tuchini della bassa val Soana calano su Pont, attaccano i castelli di Telario e della Ferranda, e poi tornano ai loro abituri con il bottino di guerra. Ma dopo tanto guerreggiare, alla fine, sfiniti, senza più nulla da mangiare per non aver più avuto tempo né modo di curare il bestiame e di lavorare, devono, come si diceva allora, demander boule, arrendersi. I valsoanini cercano di giustificarsi, dicendo che la causa della ribellione è da imputarsi soltanto ai giovani delle parrocchie della bassa valle. I nobili, non soddisfatti della repressione che pure ha già fatto distruzioni e massacri nei villaggi, fanno i sostenuti innanzi al Duca di Savoia che li aveva aiutati e che, ora, si presenta come giudice disposto al perdono, richiesto dai montanari in ginocchio, con la solenne promessa di mai più riunirsi sotto le bandiere dell’abà che, come ben sottolinea A. Bertolotti, è poi l’abà di oggi, cioè il capo dei giovani organizzatori delle feste, dei carnevali e delle baldorie
[16].
Il perdono giunge, ma otto dei giovani più compromessi e rissosi rimangono prigionieri, come ostaggi, nelle mani dei nobili. Conosciamo alcuni dei loro nomi: Domenico Peretti, Giovanni Albi, Antonio Bruna, Guglielmo Balia, Martino Piacio, don Giovanni Canavesi e don Domenico Peradotto. Come si può notare, anche dei sacerdoti si sono posti al fianco dei ribelli, così come poi succederà al tempo dei giacobini e del dominio napoleonico.
Dieci anni dopo (1545) i valsoanini fanno l’ultima ribellione, e calano ancora su Pont, dove danneggiano i castelli. Vi è qualche morto, ma è soltanto una piccola battaglia, se comparata a quelle degli anni 1335-1345, quando le bande di Tuchini erano formate da alcune centinaia di giovani armati. Il 14 giugno, il Duca di Savoia concede il perdono e promette che i nobili non avrebbero più molestato i valsoanini, neppure per vendicarsi o reclamare i danni. Nel 1558 Emanuele Filiberto rilascia un salvacondotto agli uomini di Pont e della valle, per i loro commerci, riconfermato con gli Statuti comunali del 1562. Dopo di che non si parlerà più di Tuchini, ma le Badie giovanili avranno ancora occasione di manifestare le loro competenze “politiche”.

Infatti, la prova che le Badie, come giustamente scrive G.C. Pola Falletti[17], fossero l’arma di cui il popolo disponeva nelle sue lotte contro i Signori feudali, la ritroviamo ancora. Il 20 settembre 1563, l’abà di Barbania, con un gruppo dei suoi, tira una schioppettata al conte di Levone, uccidendo un tal Gayda che è con lui, per una lite riguardante il canale del mulino[18]. Il 4 maggio 1584, le badie di Forno e di Rivara fanno una spedizione armata contro Busano, per occupare il bosco della Fraschetta, che quelli di Busano pretendono sia loro[19]. Nel 1529, la badia di Vische si ribella al suo Signore, gli mozza il capo che infilza su una picca, e quelli di Crescentino danno loro man forte; le lotte tra i Signori e le due badie di Crescentino e Vische continuano per diversi anni[20].
Azione politica è quella della badia di Rivarolo Canavese, per la contesa con il Comune di Osegna, a causa del convento della Madonna di Goretto dove, per la festa dell’8 settembre, quelli di Osegna non volevano che la badia di Rivarolo aprisse esercizi di osteria, mettesse banchi di vendita ecc. La lite dura vari anni sul piano legale, ma durante le feste organizzate dalle due badie i giovani dei due paesi se le davano di santa ragione
[21].
È chiaro dunque che le badie non erano soltanto compagnie per indire feste patronali e stagionali, ma anche per preservare i diritti delle comunità: i confini, prima di tutto; ma anche per difendersi dalle pretese dei feudatari di ereditare il patrimonio delle vedove: le “tutele” erano divenute come un diritto del sovrano, poi passato ai feudatari, mentre invece le badie avevano da sempre avuto il controllo sulle vedove: se da una parte ciò rappresentava una protezione per gli orfani, dall’altra era anche garanzia che il patrimonio non venisse sperperato e rimanesse integro alla comunità. Per questo, i matrimoni dei vedovi erano poco accettati, e in quelle occasioni la badia organizzava chiassate di dileggio e protesta (chiarivarì o chabra). Ciò si riscontra già nelle cause della ribellione biellese al vescovo-conte Giovanni Fieschi del 1377 (che pretendeva di ereditare da coloro che morivano senza testamento), e in quella dei valsoanini del Secondo Tuchinaggio (1440-1559)
[22].

Ovviamente, nel Tuchinaggio la ribellione coinvolge tutta la popolazione, ma la badia ne era l’anima in quanto vendicatrice dei diritti della comunità. Altra circostanza da annotare è che i Tuchini appaiono sovente come “compagni” di società segreta; anche per questo è difficile documentare la badia. Si sa che i Tuchins occitani erano legati da un giuramento, e che parlavano un gergo per non farsi capire. Ebbene, anche la val Soana e la val Locana sono caratterizzate da un loro gergo, il taròm de rusca, usato sino ai nostri tempi dai calderai e dagli spazzacamini, ma conosciuto in pratica da tutti i montanari di lassù[23].
Come abbiamo detto, il carnevale era la festa “badiale” più importante, come ci si può rendere conto assistendo ancora oggi alla bahìo di Sampeyre (val Varaita, Cuneo) e al carnevale di Ivrea (dove, in pratica, si fa il teatro del Tuchinaggio)
[24].
In Occitania, tra l’Ariège e l’alta Garonna dal 1829 al 1872 si è svolta la strana guerra detta delle Demoiselles, in pratica un carnaval engagé; i giovani, vestiti da donna (come è d’uso in diversi carnevali) aggredivano i carbonai e le guardie forestali (dette “le salamandre”, per via delle uniformi gialle e nere), per rivendicare la proprietà comunitaria dei boschi, divenuti demaniali: tali aggressioni avvenivano puntualmente durante i giorni del carnevale
[25].
Anche la rivolta delle tessitrici di Sala Biellese (17 febbraio 1896) è iniziata di carnevale, subito dopo che 17 coppie di sposi avevano celebrato il loro matrimonio in chiesa, secondo l’uso che vigeva colà di celebrare una sola festa matrimoniale collettiva durante il carnevale
[26].
Abbiamo il ricordo di badie armate nel bal do sabre di Fenestrelle, Bagnasco, Vicoforte, Castelletto Stura; nelle danze degli spadonari di val Susa (Venaus, Giaglione, San Giorio), nelle compagnie di tiro, nella badia di Barbania che funge da guardia armata alla processione del santo patrono, nelle “milizie” di Bannio e di castelletto Stura (dov’è il “Reggimento degli Spiantati”)… Dunque l’epopea dei Tuchini è finita nelle tradizioni dei nostri carnevali e delle feste patronali, quasi a difesa di un deus loci intimo e segreto, ben radicato? Forse. Ma non si deve dimenticare che i Tuchini, come strenui difensori e ribelli di una “nazione contadina e montanara”, sono tornati alle armi anche in epoca contemporanea. Nel 1728, 150 uomini della badia di Novale, nelle Langhe, comandati da un “tenente”, dietro una bandiera issata da un alfiere e al suono del tamburo (sempre molto importante nelle rivolte!) si ribellano perché non vogliono che le terre del convento di San Balegno diventino di proprietà del re…
Poi, montanari e contadini ribelli cambiano “segno”: non sono più chiamati Tuchini, ma Branda in Piemonte, e Socques in valle d’Aosta (dove le tre ribellioni sono dette: primo, secondo e terzo “reggimento degli zoccoli”: 1799, 1801 e l’ultimo, 1853, contro le imposte, quando furono difesi anche dal progressista Brofferio) al tempo dell’occupazione francese (liberté, égalité, fraternité… ij fransèis an caròssa e noi a pé!). A torto ritenuti “reazionari”, Branda e Socques erano invece espressioni della rabbia dei contadini e dei montanari, emarginati da una società che si pretendeva progressista (“di via Po”, diceva con ironia Brofferio) ma che, del mondo della campagna e delle Alpi, non aveva compreso nulla, sempre continuando a opprimerlo e a sfruttarlo. I giacobini, i “cittadini”, davano man forte ai nuovi padroni, e deludevano le speranze rivoluzionarie di giustizia e di pace.
Poi, negli anni dal 1943 al 1945, con la Resistenza anche il Tuchinaggio farà l’ultima sua ribellione. Quando il poeta canterà:
 La mia patria l’è s’la montagna,
l’è ’nsema ai pi giovo e ai pi fòrt
ch’a sfido la fam e la mòrt…,
l’è ’nsema ai bandì dla miseria,
l’è ’nsema ai farchèt dla speransa…
sla rochera servaja e ‘n sël ciapel tut bianch,
le fior dij patriòta a son color dël sangh.

(La mia patria è sulla montagna,
è insieme ai più giovani ed ai più forti
che sfidano la fame e la morte…,
è insieme ai banditi della miseria,
insieme ai falchi della speranza…
sulla roccia selvaggia e sulla morena tutta bianca,
i fiori dei patrioti hanno il colore del sangue).

Nino Costa


[1] Cfr. A. Bertolotti, Passeggiate nel Canavese, tomo III, Ivrea 1873, pp. 159-160.
[2] G. de Sède, 700 ans de révoltes occitanes, Plon, Paris 1982, p. 54.
[3] Cfr. M. Ruggiero, Storia del Piemonte, Piemonte in bancarella, Torino 1983, p. 207 e ss.

[4] T. Burat, Rèis e sava dël carlëvé nostran, in “Ij Brandé, armanach ëd poesìa piemontèisa”, Turin 1983, pp. 57-7 1.

[5] Processus insigni contra Bernard Délicieux, Manuscrit latin N° 4270, Bibliothèque Nationale, Paris. J. B. Hauréau, La vie hérétique de Bernard Délicieux, Paris 1931.
[6] Les Tuchiens du XIV Siècle, ne “Le peuple français” n° 8, 1979, janvier 1980.
[7] P. Vayra, Cronaca latina di Biella di Giacomo Orsi, Mosso, Biella 1890 (traduzione della Chronica Bugellae d’Ursus Jacobus Candelius, Biblioteca Nazionale di Torino, scritta tra il 1488 e il 1490).
[8] Per esempio, E. Gabotto, Il “tuchinaggio” nel Canavese e i prodromi dell’assedio di Verrua (agosto 1386 – maggio 1387), in “Bollettino Storico Subalpino”, 1896: il tuchinaggio, anziché come un moto spontaneo, va considerato come il prodotto di istigazioni partigiane del Paleologo e dei San Giorgio, Valperga e Masino, i quali spronarono il popolo contro i rivali per mezzo di accorti sobillatori che, naturalmente, non mancarono di dar da bere a rozzi e ingenui montanari le solite fole degli arruffapopoli, ricantando i nomi di usurpazione, prepotenza, libidine, da un lato; di giustizia, diritti, libertà dall’altro” (pp. 82-83). Se gli studiosi “ben pensanti” erano di quest’avviso, tuttavia ve n’erano altri più genuini che scrivevano: “Si poteva dire che due erano le classi, cioè oppressi ed oppressori. Ma veniamo alla giustizia, che dagli statuti dei comuni appare crudele come l’esposto. I delitti venivano puniti per mezzo del marchio sulla fronte e sulla guancia con ferro rovente, con amputazione della mano, di piede, di orecchia, di naso, foramento della lingua; col bando, colla fustigazione, appiccatura, abbruciamento, e privazione di un occhio. Gli ebrei si appendevano per un piede, le donne si annegavano: la pena capitale era sempre accompagnata dalla confisca degli averi. La tortura faceva confessare tutto quello che il giudice voleva; le prigioni erano gabbie appese sulla cima delle torri o al fondo delle medesime. Le pene potevano quasi sempre essere commutate in denaro, ma siccome questo era scarso, perciò le amputazioni erano frequenti e la turba dei monchi, dei segnati, presentava uno spettacolo ributtante. (…) Se questi mali si può dire regnavano ovunque, nel Canavesano erano maggiori a cagione delle risse dei feudatari tra loro (…). La giurisdizione, che le due famiglie Valperga e San Martino avevano a metà nelle terre, dava origine a che sovente in un villaggio stesso trovavansi due castelli, che due case vicine fossero fortificate l’una contro l’altra, e che il padre si trovasse contro il genero, il fratello contro il cognato (…). I capi-casa di ogni villaggio giurarono come a Pontida di far libero il suolo dai tiranni: per loro il mezzo poco importava purché si giungesse allo scopo. Debole argine erano i prezzolati “bravi” ai feudatari, migliore le forti mura; ma chi può vincere una popolazione insorta, furente nel mezzo delle proprie montagne! Nei conflitti corpo a corpo che valevano i giachi (maglie di corazza) o diploidi e le cervelliere (cuffie) di ferro, le spade, gli stocchi, le mazze dei berrovieri (i bravi scherani) e delle barbute (assoldati con elmi tutti chiusi e visiera cadente) contro le falci, i tridenti, maneggiati disperatamente! Nascosti di giorno nelle caverne (le balme), avendo disertato le abitazioni, aspettavano talvolta al varco il nobile col suo corteggio; uscivano poi di notte a guisa di fiere (come “branco di lupi”!) per dare assalto a questo od a quel castello ed a sorprendere il passaggio di qualche corpo armato. Guerra letale, scoppiata per santa causa…”, A. Bertolotti, cit., pp. 161, 167 e ss.
[9] Archivio Camer. di Torino, Conto Castellania di Cirié, Rot. 1387-1389.
[10] Archivio cit., Conto Castellania di Bard, Rot. 1390-91.
[11] Ibidem, Conto Castellania di Ivrea, Rot. 1390-1391.
[12] L. Cobrario, Il Conte Rosso, p. 39.
[13] A. Bertolotti, cit., Tomo IV, cfr. p. es. p. 9 per Pont; p. 292 per Cuorgné. Bertolotti fa anche l’elenco di coloro che hanno dovuto pagare per la rivolta del 2° Tuchinaggio (1441), ecc.
[14] Sul Tuchinaggio a Sala, nel versante biellese della Serra, cfr. G. Zanetto, Il vetusto torrazzo della Serra, Ivrea 1961, p. 86.
[15] A Bertolotti, cit., Tomo VI, pp. 10, 96, 192-194, 216, 233-234.
[16] Ibidem, p. 15.
[17] G.C. Pola Falletti-Villafalletto, Associazioni giovanili e feste antiche, vol. I, Torino 1939, pp. 71, 208, 468 e ss.
[18] Archivio di Stato di Torino, Sezione III, Carte dei Conti Valperga-Rivara, n. 114, mazzo 3.
[19] Ibidem.
[20] Don G. Bianco, La città di Crescentino, pp. 212 e ss.
[21] G.C. Pola Falletti-Villafalletto, cit., pp. 473-480. L’Autore porta anche altri esempi (pp. 477-480) di badie che, ancora nel secolo XVIII, si sono ribellate contro i Savoia (Falletto e Novello nell’Albese).
[22] A. Bertolotti, cit., Tomo VI, pp. 14-16, 98-101. In pratica, le rivolte dei Tuchini piemontesi sono durate 160 anni, dal 1385 al 1545 se si conta anche l’ultima battaglia di quell’anno; ma la grande rivolta era già terminata dieci anni prima.
[23] C. Nigra, Il gergo dei Valsoanini, “Archivio Glottologico Italiano”, III (1874), pp. 53-60; A. Dauzar, Les argots des métiers franco-provenaux, Champion ed., Paris 1917, pp. 48-59; P. Pasquali, Nuovo contributo allo studio e alla conoscenza del gergo Valsoanino, Atti III Congresso delle Tradizioni Popolari (1934), OND, Roma 1937, pp. 613-617; A. Aly Belfadel, Gergo degli spazzacamini di Intragna (Taròm di rusca), in “Archivio di Psichiatria, Scienze penali ecc.”, XXX (1909), Torino, pp. 369-78.
[24] Nel carnevale di Ivrea, la parte degli abà è ora impersonata da bambini, sostituiti ai giovani al tempo della
dominazione napoleonica, quando si temeva che la presenza di abà giovanili, nel pieno vigore delle forze, potesse essere pericolosa per l’Autorità, rievocando le insurrezioni rustiche e dando luogo così a un carnaval engagé.
[25] E Baby, La Guerre des Demoiselles en Ariège, Saverdun 1972 (tesi di laurea pubblicata a cura dell’Autore); C. Lober, La Guerre des Demoiselles, in “Gendarmerie Nationale” n. 63, 1er trimestre 1965; G. de Sède, Lutte et psycodrame: l’étrange guerre des Demoiselles, in 700 ans de révoltes occitanes, cit., pp. 145-163.
[26] (A cura del Comune di Sala), Sala Biellese, Torino 1976; A.S. Bessone, La rivolta di Sala. Tra gli ultimi giansenisti ed i primi socialisti, Centro Studi Biellesi, 1976; Roberto Gremmo, La “repubblica” di Sala del febbraio 1896, Centro Esperantista ed., Milan s.d. (ma 1976); M. Kuttel, La pérégrine (romanzo), L’age d’homme ed., Lausanne 1983, pp. 58-64; Don G. Zacchero, Sala. Chiesa, Comune, Lavoro, Emigrazione.
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L’eresia delle femmine ribelli

L’eresia delle femmine ribelli
Donne, foreste e montagne…

Michela Zucca

L'intervento di Michela Zucca è previsto nel pomeriggio di sabato 1 settembre


I popoli alpini hanno tentato, in ogni modo, di opporsi all’omologazione culturale e alla soppressione delle proprie tradizioni. In questa lunga lotta contro l’espropriazione portata dallo Stato moderno in formazione, le donne hanno combattuto in prima fila: come guerriere armate ma anche come intellettuali e soprattutto come custodi della memoria,


In un famoso processo per stregoneria iniziato a Milano nel 1390, le accusate, Sibillia e Pierina, fanno esplicito riferimento alla Signora, chiamata Diana, e alle riunioni che presiede il giovedì, a cui partecipano anche gli animali a due a due, tutti meno l’asino, che porta una croce sulla groppa: la Dea insegna i segreti delle erbe che servono per curare. È la divinità che presiede alle selve, per i greci Artemide, per i romani Diana: cacciatrice e protettrice degli animali selvatici, ma anche delle partorienti. È la grande matrice del mondo, al di là delle zone abitate dagli uomini (civili): nutre i cuccioli con il latte delle proprie mammelle, è la guardiana di misteri crudeli. È l’iniziatrice alla conoscenza della natura non umana. Non la si può né vedere né avvicinare. È la matrice, la materia e la madre insieme. È lo spirito del bosco, che fa nascere un’immensità di specie, di forme, che sorveglia la vicinanza originale con la rete di corrispondenze materiali che animano la selva. Negli spazi selvaggi, non esistono differenze irriducibili. Il suo ricordo rimarrà a lungo nella memoria popolare, e molti processi alle streghe, prima che del demonio, parlano proprio di Lei. È l’archetipo della Donna Selvaggia che prende il nome di una dea, e che serve per preservare un’intera civiltà: la cultura della foresta.
E mentre nelle città romane prima e cristiane poi trionfa una religione che serve le classi dominanti e che in seguito modella essa stessa chi avrà il privilegio di governare, sotto l’ombra materna degli alberi millenari si continua ad adorare la Grande Dea.
Per tutto il Medio Evo immense foreste meravigliose ricoprono il continente nell’indifferenza dei tempi. Qua e là piccoli insediamenti umani sparsi sopravvivevano con la caccia e la raccolta di quanto il bosco poteva offrire. Per il nuovo ordine sociale che si riorganizzava lentamente sulla base delle istituzioni feudali e religiose le foreste erano, per l’appunto, foris, all’esterno. Là vivevano i proscritti, i folli, gli amanti, i briganti, i fuggitivi, i disadattati, gli eremiti, i santi, i lebbrosi, i rivoluzionari, gli eretici, i perseguitati, le streghe, le donne perdute, gli uomini selvaggi. Ma non solo: in periodi di grande instabilità, di invasioni e di scorrerie violente da parte di popoli stranieri, sull’arco alpino (ma non solo) molte città spariscono completamente, e gli abitanti superstiti si ritirano a vivere nelle grotte, al di fuori dei sentieri battuti dalle orde di barbari, protetti dalle fronde di boschi impenetrabili.
Il fenomeno del vagabondaggio fuorilegge, del resto, rispecchiava l’estrema mobilità di una parte della società medioevale, la population flottante: mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi, artigiani, diffusissimi sull’intero arco alpino fino a pochi decenni fa (ogni valle si specializzava in un mestiere); carbonai, altri personaggi tipicamente alpini; monaci questuanti, o vaganti in fuga dal convento, frati perdonatori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti cortigiani e cantastorie, trovatori, studenti itineranti che chiedevano la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori di ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri, pellegrini autentici e non, visionari, “uomini di dio”, ebrei erranti e maledetti, mendicanti veri e falsi, soldati e mercenari, scampati dai pirati o dagli infedeli, servi fuggiaschi, maestri e apprendisti. A partire dal Tardo Medio Evo si aggiungono gli zingari, arrivati dall’India attraverso una migrazione secolare. E ogni gruppo con il proprio linguaggio “corporativo” o gergo segreto (la lingua occulta), coi suoi santi, le sue cantilene e salmodie, le sue pentole, i suoi sogni.
Le schiere di sbandati spinti alla ribalderia dalle guerre, dalle imposte, dalla fame, dovevano essere davvero tante: la società medioevale getta sulle strade, e nel bosco, le sue frange più deboli. Il numero degli esclusi aumenta vertiginosamente (cfr. Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino 1973), e questa gente raggiunge – e vi si unisce fino a confondervisi – il preesistente “popolo della foresta e delle montagne”. E dove sarebbero potuti andare? Scappare dalla legge e dalla società degli uomini civili era ritrovarsi automaticamente “al monte” (ancora oggi, in Sud America, di un guerrigliero che «entra in clandestinità» si dice che «se ne va in montagna», «fuirse para el monte», anche se magari non esistono nemmeno dei rilievi nella zona in cui si scappa: ma «monte» e «selva» sono sinonimi di spazio segreto, al riparo della legalità, popolato da gente che protegge il fuggiasco).
La Chiesa cristiana, che nel frattempo cercava di unificare l’Europa sotto il segno della croce, era fondamentalmente ostile alle montagne, queste barriere impassibili di natura incolta. I princìpi di identità e di non contraddizione, fondamenti della logica che presiede al pensiero dell’uomo civile, svaniscono nella foresta. Il profano si trasforma in sacro, i fuorilegge diventano i difensori di una giustizia superiore: vedi il mito di Robin Hood, diffuso sotto varie forme su tutto il continente europeo. Che la legge sia religiosa, politica, psicologica, o anche solo logica, la foresta la destabilizza. Le foreste sono al di là della legge: o meglio, fuori dalla legge. La bestialità, la caduta, il nomadismo, la perdizione: queste le immagini che la mitologia cristiana associa alla foresta e alla montagna.
Dal punto di vista teologico, i boschi rappresentano l’anarchia della materia. Essendo l’esatto contrario del mondo creato a immagine di Dio, erano considerati come gli ultimi bastioni del culto pagano. Nelle tenebrose foreste celtiche regnavano i druidi; in Germania esistevano i boschi sacri; di notte, appena fuori dalle città, assediate da vicino dalla selva sterminata, le streghe celebravano i loro riti. Antichi demoni, fate e spiriti della natura si aggiravano fra gli alberi, e la popolazione manteneva e coltivava i legami tradizionali con il passato pagano. Distruggere i boschi non significava soltanto ridurre in cenere innumerevoli secoli di crescita naturale: significava soprattutto annullare i fondamenti della memoria culturale della gente che li abitava. Infatti, disboscamento e sradicamento di alberi sacri furono attività a cui le gerarchie ecclesiastiche si applicarono devotamente e con profitto.

 

In Italia, il luogo in cui la memoria storica dell’antica società è rimasto più a lungo sono le Marche, regione fuori dalle grande strade commerciali e militari, coperte di montagne e di boschi un tempo quasi impenetrabili. Là antiche sacerdotesse, depositarie della conoscenza magica ma anche del potere sulle proprie comunità, hanno lasciato il nome al territorio che per millenni le ha ospitate: i Monti Sibillini. L’organizzazione sociale e politica “sibillina”, anche dopo l’Unità d’Italia, si reggeva sulle comunanze: praticamente, la proprietà privata non esisteva; non solo il bosco e il pascolo erano di uso collettivo ma anche il seminativo veniva coltivato a turno dalle famiglie che facevano parte della comunità. La civiltà delle Sibille è stata, per secoli, un punto di riferimento e di attrazione per gli intellettuali che contestavano l’organizzazione statale. Cecco d’Ascoli fu mandato al rogo per aver avuto rapporti con i negromanti e le Sibille dei Monti Sibillini. Molti pensatori fra i più noti, dal ’300 al ’600, dal cavaliere De La Salle ad Agrippa fon Nettesheim, da Benvenuto Cellini ad Andrea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la Sibilla, passando per Norcia, in Umbria, o per Monte Monaco, nelle Marche. Lì chiedevano un mulo e una guida per avventurarsi sulle montagne. E quello che trovavano non era una vecchia stravagante che leggeva la mano davanti a una grotta, ma una comunità di contadini, pastori, artigiani, tessitrici, guaritrici che vivevano secondo regole diverse da quelle che erano imposte dalle società di pianura. Quelle montagne, come le Alpi, divennero rifugio di tutti coloro che non erano d’accordo con il potere: eretici, libertari, templari sopravvissuti alle stragi di Filippo il Bello, catari, anabattisti, o semplicemente intellettuali che non accettavano l’egemonia teocratico-militare degli stati in formazione. Tutto ciò causò una feroce persecuzione nei primi anni del ’300: i francescani locali accusarono le Sibille di aver preparato un avvelenamento a distanza contro Papa Giovanni XXII. E sulle montagne delle matriarche fiammeggiarono i roghi.

Per quanto riguarda le streghe delle Alpi, non ci troviamo di fronte a una maniera “popolare” di interpretare il cristianesimo, ma a un’altra forma di religione, che venera una Grande Madre e vede nel cattolicesimo l’avversario. Il diavolo è un personaggio che viene introdotto dagli inquisitori: prima era soltanto il segretario-servo della Dea. Il Satana del sabba, dotato di corna, corpo peloso e zampe di capra, è l’erede diretto del dio Pan: i preti non riuscivano a tollerare un dio femmina. Le streghe della Simmenthal (Svizzera) avevano coscientemente abiurato il cristianesimo per adorare il diavolo, che chiamavano “piccolo padrone”: si tratta di un preciso atto di insubordinazione. D’altra parte, non si può pensare che queste donne, specie dopo l’inizio delle persecuzioni, non fossero consapevoli del rischio che correvano continuando a praticare gli antichi riti, vedendo amiche, parenti, compagne e colleghe bruciare sui roghi.

La rivolta di classe è un tema ricorrente nelle descrizioni del sabba. Non solo la festa terminava con la narrazione dei crimini commessi dai partecipanti, ma le streghe in prima persona venivano specificamente incoraggiate dal diavolo a ribellarsi contro i padroni. Lo stesso accordo col demonio era chiamato dagli inquisitori conjuratio, come il patto che si stringeva fra i lavoratori in lotta. E le rivendicazioni contro i proprietari e i datori di lavoro, in particolare l’attacco contro la proprietà, venivano spesso bollate come stregoneria. Belzebù rappresentava, nell’ottica dei persecutori, una promessa di potere, amore e ricchezza per cui si era disposti a vendere anche l’anima, e cioè a infrangere ogni legge, morale e sociale. I rituali stessi attribuiti alla stregoneria, tutti centrati sul tema dell’inversione (la messa celebrata all’indietro, le danze nella direzione contraria a quella dell’orologio) sono sintomatici dell’identità che si stabilisce fra stregoneria e rivoluzione. La donna-strega è il simbolo del “lato nero” della natura, di quanto di incontrollabile, selvaggio, disordinato, violento può esistere sulla terra. La caccia alle streghe è stata un’arma potentissima contro ogni forma di insubordinazione sociale.
Esistono coincidenze quanto meno curiose fra le recrudescenze delle persecuzioni alle donne, la caccia agli eretici e l’esplodere delle grandi rivolte, sia urbane che contadine, che incendiano l’Europa rurale per ben tre secoli. E le Alpi si trovano sempre in mezzo a questi flussi continui, semiclandestini, di uomini e di idee: c’è da credere che i montanari abbiano appoggiato e offerto un buon rifugio a ogni tipo di fuorilegge. Ne è prova la grande presenza delle donne nei movimenti ereticali, e la somiglianza delle pene e delle accuse: nell’ultimo decennio del XIV secolo la Facoltà di Teologia di Parigi sancisce l’identificazione tra i due delitti. Anche gli eretici venivano puniti con il rogo e accusati di degenerazione sessuale, infanticidio, omosessualità. Quella che oggi definiremmo una “rivoluzione sessuale” è una componente fondamentale dei moti eretici, che guarda caso passano tutti per i sentieri delle Alpi: dagli Adamiti ai Luciferani, ai Fratelli del Libero Spirito… Sulla scia dei Catari, molti eretici rifiutavano il matrimonio e la procreazione e praticavano il libero amore, in un’ottica di egualitarismo tra i sessi che costituiva già di per sé una vera rivoluzione.
Il catarismo e le altre sette ereticali, inserendosi in contesti culturali dinamici, fornirono un’alternativa religiosa a gruppi e a individui già spontaneamente alla ricerca di identità autonome. Antichi schemi e consolidate gerarchie furono abbattuti. Un becchino (Marco di Lombardia) poté diventare vescovo cataro; nobili si convertirono allo stato di perfezione e si fecero tessitori; le idee dotte elaborate in ambienti colti furono fatte proprie dagli “incolti”, persino dai rustici e dai montanari, che fino ad allora si erano mantenuti ai margini dell’elaborazione di nuovi modelli di pensiero.
Evidentemente, al di là del rifugio offerto al perseguitato per un vincolo di naturale solidarietà contro il potere costituito, le idee della contestazione religiosa trovarono largo seguito sulle Alpi perché in qualche modo davano voce a rivendicazioni reali della gente comune. Considerata la straordinaria diffusione delle sette ereticali sulle Alpi, basata per forza di cose su una fitta rete di insediamenti appoggiati e sostenuti dalla popolazione (i primi predicatori venivano spesso dalle città, non avevano rapporti col territorio e non avrebbero potuto sopravvivere se la gente non li avesse nutriti e nascosti), si pensa che, almeno in parte, si sia trattato di un movimento rivoluzionario che legava tra loro gli strati più bassi della società, spinti a unirsi in comunità religiose per difendersi dallo sfruttamento dei primi imprenditori dell’industria laniera e dalla oppressione dei proprietari fondiari. Dai Catari ai Valdesi, agli Umiliati ai Dolciniani, ai Fratelli del Libero Spirito, tutti passarono per le nostre montagne, alcuni, da allora, non si sono più mossi, come i Valdesi.

Stando ai resoconti dei contemporanei, bande di banditi infestavano strade e sentieri di tutto l’arco alpino. A metà dell’XI secolo l’inglese Guglielmo di Malmesbury scriveva:

Le strade maestre che percorrono l’Italia erano così infestate da briganti sì che non vi era pellegrino che potesse percorrerle senza una robusta scorta. Nugoli di ladri assalivano i viandanti, né il viaggiatore riusciva con alcun mezzo a sfuggir loro (…). Così grande era il terrore ispirato da questi briganti, che il viaggio per Roma era cessato in ogni nazione e tutti preferivano versare l’obolo alla Chiesa del proprio Paese che nutrire un nugolo di grassatori con le proprie fatiche.

Alle derelitte bande di fuggiaschi dalla giustizia si univano donne che occasionalmente si prostituivano, ed erano quasi sempre serve scappate dai padroni, in gruppi che si trascinavano al seguito dei mercanti che portavano le merci da un mercato all’altro e degli eserciti in marcia. Evidentemente, piuttosto che cedere – gratis – l’unico bene di cui disponevano, avevano preferito amministrare da sé la propria forza-lavoro. Non c’è ragione per dubitare che partecipassero alle azioni di rapina e di saccheggio in prima persona. Madri, sorelle, mogli e amanti di fuorilegge, poi, ospitavano e appoggiavano i parenti senza denunciarli mai.

Le donne parteciparono in massa anche alle sommosse per poter utilizzare la risorsa principale della montagna: la foresta. Per il “popolo dei boschi”, il modo più facile di procurarsi il cibo era la caccia: ma un certo tipo di selvaggina era privilegio reale o nobiliare. E se per molto tempo gli aristocratici non si spinsero nel folto della macchia per paura, con lo sviluppo delle vie di comunicazione e l’ingrandirsi degli insediamenti di fondovalle gli sbirri dei signorotti cercarono di far rispettare i diritti dei loro padroni. In questi casi, sono le guardie forestali a impersonare il nemico, e sono anche le prime vittime delle rivolte contadine, le jacqueries, che raggiungono livelli di violenza e di ferocia difficilmente immaginabili. In queste ribellioni riemerge l’aspetto rituale della battaglia, che il cristianesimo aveva tentato di soffocare. Certe azioni, che gli storici hanno liquidato come “atti di violenza gratuita e irrazionale”, in realtà mantengono una spiegazione magica e religiosa arcaica. Per esempio, il cannibalismo, praticato fino all’età moderna durante i moti popolari; o le mutilazioni: operazioni in cui si distinguono proprio le donne.
La vendita pubblica di carne umana durante le insurrezioni popolari si inserisce in una tradizione che continua per tutto il Medio Evo. A Montpellier, nel 1380, i rivoltosi squartarono gli ufficiali del re, mangiarono la loro “carne battezzata” o la buttarono in pasto alle bestie. Ancora a Romans, nel 1580, la gente si solleva contro le decime e le taglie: contadini e artigiani affollano le strade minacciando che “fra tre giorni si venderà carne di cristiani a sei pence la libbra”. Ad Agen nel 1653 le donne compiono mutilazioni rituali sui corpi delle vittime: una strappa gli occhi a un gabelliere morto e se li porta a casa avvolti in un fazzoletto; un’altra gli taglia i testicoli e li dà da mangiare al proprio cane (cfr. Silvia Federici – Leopoldina Fortunato, Il grande Calibano). E via dicendo. D’altra parte, l’usanza celtica prescriveva di tagliare la testa al nemico e di appenderla sulla soglia di casa: in questo modo ci si appropriava delle sue migliori qualità. Le donne erano le depositarie dei segreti della conoscenza e dei rapporti col mondo dei morti e degli spiriti: niente di strano che fossero proprio loro a eseguire quei riti di magia simpatica che permettevano l’acquisizione della potenza e delle qualità del nemico.

Non fu tanto la religione, quanto il razionalismo militante, che alla fine fece scomparire le fate e le altre creature silvestri. Se la Chiesa si era limitata a mettere in guardia contro spiriti che potevano essere pure di obbedienza satanica, il razionalismo ne negò l’esistenza, come negò quella del Diavolo e delle streghe. A scuola si imparò che erano tutte “superstizioni d’altri tempi”.
La foresta, finalmente liberata dal suo incantesimo, poteva ormai essere sfruttata secondo la tecnologia moderna, che distruggeva l’ambiente. La solcarono strade; rettifili disboscati penetrarono fin nel più fitto degli alberi. Il “popolo degli alberi” perse l’unica risorsa di cui disponeva, il rifugio in cui ritirarsi al di fuori dell’influenza dei “civili” (che erano riusciti a occupare ogni angolo), in cui vagare a proprio piacimento come gli animali selvatici. E perse Dio.

Streghe, eretiche, delinquenti: dove sono andate a finire le antiche femmine ribelli delle Alpi e delle foreste d’Europa? Bruciate dai roghi, naturalmente; fatte a pezzi sui patiboli, in mezzo alla gente di città, curiosa ed eccitata; ridicolizzate dagli intellettuali e dimenticate, soprattutto. Perché dopo l’Inquisizione, che pure fece tanti morti, il ricordo di loro rimase: e le creature mitiche continuarono, per secoli, a parlare attraverso le storie delle vecchie e a popolare le notti senza luna.

Testo estrapolato da: Michela Zucca, “Donne delle foreste e delle montagne: l’eresia delle femmine ribelli”, pubblicato in “Eretici dimenticati. Dal Medioevo alla modernità” (a cura di Corrado Mornese e Gustavo Buratti), DeriveApprodi, Roma 2004.

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bibliografia


Bibliografia su David Lazzaretti
il profeta del Monte Amiata.

Gianni Repetto, L’uomo del mistero. Guida pratica e sintetica ai luoghi, alla vita e alle opere di David Lazzaretti, profeta dell’Amiata, Arcidosso 2001.

Alfio Cavoli, Il Cristo della povera gente. Vita di David Lazzaretti da Arcidosso (Prefazione di Ernesto Balducci), Nuova Immagine, Siena 1988.

Lucio Niccolai, David Lazzaretti. Il racconto della vita, le parole del “profeta”, Effigi, Arcidosso 2006.

Anna Innocenti Periccioli, David Lazzaretti. Il profeta toscano della fine ’800 nelle memorie trasmesse dalla figlia alla nipote, Jaca Book, Milano 1985.

Arrigo Petacco, Il Cristo dell’Amiata. La storia di David Lazzaretti, Mondadori, Milano 1978-2003.

Eric Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1980.

N. Nanni, F. Bonelli, A. Giustarini (a cura di), David Lazzaretti. Interventi, documenti, testimonianze, Quaderno n. 1 della rivista “Amiata. Storia e territorio”, Monte Amiata 1988.

Carlo Pazzagli (a cura di), Davide Lazzaretti e il Monte Amiata: protesta sociale e rinnovamento religioso. Atti del Convegno: Siena e Arcidosso, 11-13 maggio 1979, Nuova Guaraldi, Firenze 1981.

Mauro Chiappini, Davide Lazzaretti il Barrocciaio dell’Amiata, Tipografia Ceccarelli, Grotte di Castro 2000.

Giacomo Barzellotti, David Lazzaretti di Arcidosso detto il Santo: i suoi seguaci e la sua leggenda, Arnaldo Forni, Bologna 1977.

Enrica Tedeschi, Per una sociologia del millennio. David Lazzaretti: carisma e mutamento sociale, Marsilio, Venezia 1989.

Tavo Burat, David Lazzaretti: l'ultima eresia popolare italiana, in "Rivista Dolciniana", n.23, DeriveApprodi, Roma 2003.

Fabrizio Federici, 1878-2003: David Lazzaretti, un profeta per il XXI secolo, in "Rivista Dolciniana", n.23, DeriveApprodi, Roma 2003.


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Bibliografia


BIBLIOGRAFIA GENERALE

Quello che segue è un elenco, inevitabilmente incompleto, di consigli di letture sui temi dell’eresia e della rivolta.
Per i singoli argomenti trattati nel corso dell’iniziativa, rimandiamo alle categorie con le bibliografie specifiche (streghe – dolcino – guerra dei contadini – lazzaretti).

Gustavo Buratti – Corrado Mornese (a cura di), Eretici dimenticati. Dal Medioevo alla modernità, DeriveApprodi, Roma 2004.

Centro Studi Dolciniani, Achtung banditen. Contadini e montanari tra banditismo, ribellismo e resistenze dall’antichità ad oggi, Millenia, Novara 2004.

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, rivoltose, tarantolate, Simone, Napoli 2004.

Corrado Mornese – Gustavo Buratti (a cura di), Banditi e ribelli dimenticati. Storie di irriducibili al futuro che viene, Lampi di stampa, Milano 2006.

Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino 1973.

Andrew MacCall, I reietti del Medioevo, Mursia, Milano 1988.

Giovanni Merlo, Eretici ed eresie medioevali, il Mulino, Bologna 1989.

Raoul Vaneigem, Il movimento del Libero Spirito, Nautilus, Torino 1995.

Norman Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Comunità, Milano 1976.

Roberto de Mattei, A sinistra di Lutero. Sette e movimenti religiosi nell’Europa del ’500, Città Nuova, Roma 1999.

Amedeo Molnar, I Taboriti, avanguardia della rivoluzione hussita, Claudiana, Torino.

Tavo Burat, Il tuchinaggio occitano e piemontese, in “Rivista dolciniana”, n. 22, DeriveApprodi, Roma 2002.

Aa.Vv. (Cìola, Colla, Mutti, Mudry), Rivolte e guerre contadine, Barbarossa, Milano 1994.

Guy Fourquin, Le sommosse popolari nel Medioevo, Mursia, Milano 1976.

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Bibliografia

Stregoneria, caccia alle streghe e dintorni

Sulla caccia alle streghe e la stregoneria esiste una bibliografia sterminata. Quello che segue è quindi soltanto un elenco di alcuni titoli interessanti sull’argomento, senza alcuna pretesa di completezza.

Carlo Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del Sabba, Einaudi, Torino 1989.

Silvia Federici – Leopoldina Fortunato, Il grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, Franco Angeli, Milano 1984.

Margaret Murray, Le streghe nell’Europa occidentale, Garzanti, Milano 1978.

Luciano Parinetto, Streghe e potere. Il Capitale e la persecuzione dei diversi, Rusconi, Milano 1998.

Luciano Parinetto, La traversata delle streghe, Colibrì, Milano 1997.

Charles C. Leland, Il Vangelo delle streghe, Stampa alternativa, Viterbo 2001.

Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, rivoltose, tarantolate, Simone, Napoli 2004.

Centro Studi Dolciniani – Corrado Mornese – Roberta Astori, L'eresia delle streghe. Due letture del “Malleus Maleficarum”, Lampi di stampa, Milano 2005.

Corrado Mornese, Strega, ombra di libertà, Millenia, Novara 2004.

Mary Douglas (a cura di), La stregoneria. Confessioni e accuse nell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino 1980.

Luciano Parinetto, Solilunio. Erano donne le streghe?, Pellicani, Roma 1996.

Ermanno Gallo, Il Marchio della Strega. Malleus Maleficarum, il manuale dell’Inquisizione sulla caccia alle streghe e le sue applicazioni, Piemme, Casale Monferrato 2005.  


Alcuni dei libri di Massimo Centini sull’argomento:

Streghe, roghi e diavoli. I processi di stregoneria in Piemonte, L’arciere, Cuneo 1995.

Le schiave di Diana. Stregoneria e sciamanismo tra superstizione e demonizzazione, Genova 1994.

Le streghe nel mondo, De Vecchi, Milano 2002.

Le stregoneria, Xenia, Milano.

La stregoneria in Valle di Susa e dintorni, Susalibri, Susa 2006.

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Bibliografia


  
  Sulla guerra dei contadini in Germania
  e su Thomas Müntzer:

Ugo Gastaldi, Storia degli anabattisti, 2 volumi, Claudiana, Torino 1972-1981.

Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania, Rinascita, Roma 1949.

Hildegard Eilert (a cura di), Riforma protestante e rivoluzione sociale. Testi della guerra dei contadini tedeschi (1524-1526), Guerini e associati, Milano 1988.

Giorgio Spini, Le origini del socialismo, Einaudi, Torino 1992.

Thomas Müntzer, Scritti politici (a cura di E. Campi), Claudiana, Torino 1972.

Ernst Bloch, Thomas Müntzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980.

Tommaso La Rocca, Es ist Zeit. Apocalisse e storia. Studio su Thomas Müntzer (1490-1525), Cappelli, Bologna 1988.

Tommaso La Rocca, Thomas Müntzer e la rivoluzione dell’uomo comune, Claudiana.

Luciano Parinetto, La rivolta del diavolo. Müntzer, Lutero e la rivolta dei contadini in Germania e altri saggi, Rusconi 1999.

Paolo Thea, Gli artisti e gli spregevoli. 1525: la creazione artistica e la guerra dei contadini in Germania, Mimesis, Milano 1998.

D. Forte, Martin Lutero e Thomas Müntzer, ovvero l’introduzione della contabilità, Einaudi, Torino 1974.

  Su Michael Gaismair
  e la guerra dei contadini in Tirolo:

Aldo Stella, La rivoluzione contadina del 1525 e l’utopia di Michael Gaismayr, Liviana, Padova 1980.

Giorgio Politi, Gli statuti impossibili. La rivoluzione tirolese del 1525 e il «programma» di Michael Gaismair, Einaudi, Torino 1995

  Sulla riforma protestante
  e la sua ala radicale:

Josef Macek, La Riforma popolare, Sansoni, Firenze 1973.

Peter Blicke, La riforma luterana e la guerra dei contadini. La rivoluzione del 1525, il Mulino, Bologna 1983.

G. Alberigo, La riforma protestante, Garzanti, Milano 1959.

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