Le rivolte dei “Tuchini”


Il tuchinaggio occitano e piemontese

Tavo Burat

Saggio pubblicato in “La Rivista Dolciniana” n. 23, Roma 2003

Toun istòri, te l’àn counta d’arebous
La tua storia, te l’han raccontata al contrario
Federico Mistral

In Italia, con il termine “Tuchini” (piemontese, Tuchin con la u francese) s’intendono i ribelli del Canavese e della Valle d’Aosta dalla fine del secolo XIV alla metà del XVI. Alcuni vorrebbero derivare il termine da tucc-un (“tutti per uno”); altri dai vecchi verbi francesi athutiner o atouchiner, che significherebbero complottare, intrigare, altri ancora, come Charles Ducange (grande erudito, studioso del basso-latino, 1610-1688), da tuchia o touche per (parte, porzione di) foresta, cosicché sarebbe uomo della foresta”. Ma a parte il passaggio dalla “u” (ou francese) alla “ò” di tòch/pezzo, alla ufrancese di tuchin che non convince, lo strano è che non si pensi al fatto che troviamo prima che in Piemonte la parola tuchien in Francia (Alvernia e Linguadoca) dove cane si dice chien, e tuchien/tue-chien significa ammazza-cani”, non tanto perché quella povera gente, disperata e furiosa, mangiasse carne di cane (anche se ciò era certamente possibile), ma soprattutto perché ammazzare i cani dei padroni era un atto di ribellione. Infatti conti e baroni volevano imitare i principi: se Amedeo VII di Savoia aveva ottanta cani, pure loro ne volevano avere altrettanti; cani che non erano soltanto da guardia, ma che sovente facevano strage di pecore, capre e pollame dei contadini, che dovevano tacere e sopportare i danni. Non soltanto, ma in alcuni luoghi vigeva lo jus brenagi, cioè il diritto del feudatario di imporre tasse per il mantenimento dei cani[1]. Facile da capire, quindi, che una delle prime ribellioni consistesse proprio nell’uccidere i cani dei feudatari. Tuchiens, quindi, sta per “scalzacani” in tutti i sensi, concreto e traslato (per “poveraccio”, “mascalzone” ecc.) che il termine comporta.
Troviamo nella storia, per la prima volta, menzionati i Tuchiens nel 1361, quando il capo Séguin de Badefol conquista in alta Alvernia i castelli nei dintorni di Mende e di Puy. Soltanto tre anni prima (1358) nel nord della Francia era scoppiata la rivolta dei Jacques Bonhomme (la Jacquerie, dall’appellativo che con disprezzo i nobili francesi davano al contadino francese). Ma se la Jacquerie dura soltanto dodici giorni (con un massacro di ventimila poveri rustici), i Tuchiens faranno una guerra di più di vent’anni, destinata ad estendersi sino alle Alpi piemontesi, dove non si darà per vinta che alla metà del secolo XVI poiché, come rileva lo storico occitano Gérard de Sède
[2], i Jacques Bonhomme dell’Oise (Francia del nord-est) hanno fatto un’insurrezione contadina disperata, senza la minima organizzazione (come “branco di lupi”), i Tuchiens hanno avviato una vera e propria guerra, coinvolgendo anche artigiani e commercianti, persino nobili, dimostrando che c’erano gruppi di cospiratori diffusi e organizzati e che, se cause erano la miseria, la carestia, la crisi economica e dell’agricoltura, travolta dal consumo di vino, pelli, tessuti di lana, fatto dalla borghesia che comprava i terreni, con la conseguenza che si formavano latifondi non curati, destinati a finire in gerbidi, e a ridurre i contadini sul lastrico[3], di cause ve n’erano anche altre: una “resistenza” che potremmo definire “nazionale” o, meglio, “etnica”, considerando che la popolazione dell’Alvernia non era “francese”, e che quella della montagna (del Massiccio Centrale, ma anche delle Alpi) aveva una civiltà “altra” rispetto a quella della pianura, espressione del diritto romano e feudale (proprietà privata, invece di terra comunitaria; ordine e obbedienza, invece di decisioni collettive prese all’ombra del grande olmo sulla piazza; religione come supporto del potere, anziché radicata nel culto della terra, madre di tutte le creature; tradimento dell’autentico messaggio evangelico…).
Iniziata in Alvernia, l’insurrezione rapidamente si estese nel Velay, Rouergue, Vivarese, Linguadoca, Provenza e Lionese, da dove poi dovrà passare in Piemonte e Valle d’Aosta.
Nel 1363, due contadini di Luzers (nei pressi di Bonnac, cantone di Massiac, nel Cantal), indicono una grande assemblea di “compagni”, a Girenge, nella cascina detta della Garipo, dandoci già l’idea che l’organizzazione della rivolta si regge sulle Badie o “società dei giovani” o “dei compagni”, istituzione molto importante dell’antica civiltà degli uomini liberi e che troviamo al primo posto nell’impegno di mantenere vive le tradizioni, e le feste legate alla terra e alla religione naturale (coltura, cultura, culto…, parole dallo stesso etimo
[4]). In quell’anno, Séguin de Bedefol conquista anche la città di Brioude (Alta Loira); e Giovanni, duca di Berry, figlio di re Giovanni II (1319-1364) e fratello del futuro re Carlo V (1337-1 380), governatore dell’Alvernia, per rientrare nella città deve pagare un forte riscatto. Questo duca di Berry; detto “il Magnifico” (1340-1416), era un giovane prepotente, voglioso di sfruttare i suoi sventurati sudditi, già a mal partito in quanto la Linguadoca, confinante con l’Aquitania soggetta al re d’Inghilterra, era messa a ferro e fuoco dagli eserciti inglesi e francesi durante la guerra dei cento anni in corso.
Nel 1379, Montpellier insorge, e quando viene nuovamente occupata dal duca di Berry si scatena una sanguinosa rappresaglia: seicento abitanti sono decapitati o impiccati, e ai restanti vengono requisiti tutti i beni. I Tuchiens soffiano sul fuoco e attaccano ovunque gli uomini del duca. Comandati da un contadino, Pèire Césaroun, da un gentiluomo, Géraud de Brusac, e da un nanerottolo orbo e deforme, detto Coupet, assaltano i castelli dalle parti di Albi, Montauban e di Tolosa. Nel 1381 il duca è battuto a Revel e a Rabastan (Tarn): lui, fratello di re Carlo V (succeduto al padre nel 1364), è costretto a scappare come una lepre, inseguito dai contadini occitani! È allora che un uomo di Rabastan grida: «Rei de Fransa, rei de figas, rei de rnerda!» e per quell’ingiuria sarà in seguito condannato a morte.
L’insurrezione è ormai generale, e si può dire che l’Occitania è in guerra contro la Francia: è la seconda volta, dopo la conquista compiuta con il massacro dei Catari. La prima grande insurrezione fu infatti quella accesasi a Carcassonne (1303-1304) da fra Bernardo Deliciosi (in francese Délicieux)
[5]. Pungolato dal sogno di giustizia e di liberazione, egli aveva camminato lungo le strade occitane predicando al popolo contro l’inquisizione. In quel medesimo 1304, Dolcino era alla testa degli insorti valsesiani… E anche la guerra dei Tuchiens ha avuto il suo “fra Dolcino” in Occitania: Jean de la Roquetaillade (Johannes de Rupescissa), un altro francescano rivoluzionario che, vent’anni dopo fra Bernardo (finito murato vivo nella sua Carcassonne, da Giovanni XXII), negli anni 1340-1344, in nome della povertà di Cristo e del messaggio liberatorio del Vangelo, si era scagliato contro i Domenicani – che egli definiva “gli eretici di mammona” – e tutti coloro che davan man forte ai potenti assisi sui loro troni[6].
Nel 1385, Pèire de Bruges, piccolo nobile della valle dell’Aude, passa dalla parte dei Tuchiens, e diventa il loro primo capitano. Ma la repressione è terribile: al capo ribelle Jean de la Viulte, catturato, bruciano i piedi e poi lo gettano vivo nel fondo di un pozzo. A Vézenobres, i Tuchiens, piuttosto che arrendersi, si suicidano gettandosi dalle mura. Nel 1384, la borghesia e i nobili che speravano di liberarsi dal giogo francese, vedono la causa ormai perduta e abbandonano i Tuchiens, rimasti soli a battersi contro l’armata del re. In primavera, muore in battaglia nell’alta Alvernia Pèire de Bruges; lo sostituisce al comando dei ribelli Guilhelm Garcìa, unitamente a due nobili, il Signore di Perthuis e Jean de Dienne, che tenta un’alleanza antifrancese con gli inglesi giunti in Alvernia. Dopo una bella vittoria ottenuta a Brodassol, il De Dienne è battuto dalle milizie della borghesia di Saint-Flour, comandate dal vescovo locale in nome del re, e viene giustiziato. Anche il capo contadino Pèire Cesaroun finisce al boia, tradito dal superiore del convento di Vaour. Luigi II di Borbone (1337-1410), marito di Anna di Clermont, “delfina” d’Alvernia, fa gettare tutti i Tuchiens prigionieri in una grande buca colma di brace ardente, e li fa arrostire vivi. A Mentières (giugno 1384) i Tuchiens sono battuti nell’ultima battaglia, quella della disperazione. I capi Guilhelminet, Akamargot e Cédrin cadono in combattimento; Cédrin, catturato, è bruciato vivo. Ha così termine la guerra dei Tuchiens occitani.

Due anni prima dell’insurrezione di Montpellier (1379), i Biellesi si ribellano al vescovo Giovanni Fieschi, vescovo di Vercelli e conte, non più sopportando le sue prepotenze. Sono trascorsi esattamente settant’anni dalla cattura di fra Dolcino. Nei boschi ancora di proprietà comunale, nel Barazzetto, verso la Burcina, dov’è una cappella dedicata dagli eremiti a San Paolo, in maggio (il giorno del calendimaggio, quando si fa la festa del piantamento dell’albero?), Grìbolo della Torrazza, capo dei “giovani” (l’abà?) del Piazzo di Biella, prepara il piano per catturare il vescovo. La cronaca racconta che, approfittando del fatto che il vescovo apprezza molto la selvaggina, i giovani fingono che nel bosco sia stato avvistato un grosso cinghiale, e riferiscono l’avvistamento alle guardie di palazzo, le quali abbandonano il loro servizio innanzi al castello per dare la caccia all’animale. Allora Grìbolo e i suoi giovani entrano nel palazzo e catturano il vescovo Fieschi, ancora a letto, lo fanno scendere e così com’è, nudo, lo legano in groppa a un asino facendoglielo cavalcare al contrario (la testa rivolta alla coda dell’animale), e lo conducono, dileggiandolo, innanzi alla “credenza” (il consiglio). La leggenda vorrebbe che i Biellesi poi l’avessero scannato, e mangiato per “merenda sinòira” con i cavoli, dopo avergli fatto perdere il “sentore” di selvatico lasciandolo per qualche tempo nell’acqua corrente della roggia. Benché tutto fosse possibile a quei tempi (quando per fame si giungeva a cibarsi di carne umana, dei nemici o persino dei bambini: le storie degli orchi ne sono una testimonianza appena mascherata), ciò è falso, perché Giovanni Fieschi è morto nel suo letto, due anni dopo a Roma, fatto cardinale da papa Urbano VI[7].
Come sempre accade, i potenti approfittano dell’insurrezione, segretamente appoggiata dai signori biellesi, persino da canonici come Ardizzone Collocapra che prepara l’ingresso dei Savoia a Biella. Infatti, appena il vescovo è fatto prigioniero, giunge a Biella il conte valdostano Ibleto di Challant (uomo di fiducia e ministro del duca Amedeo VI) che lo conduce nel suo castello di Mongiovetto, pone uno Challant (suo fratello) a podestà di Biella e convince i ribelli ad accordarsi con il Conte Verde che compensa con 30 fiorini d’oro il Canonico.
Anche Andorno, nella valle del Cervo, si ribella: quando sanno che il vescovo è prigioniero, i valligiani prendono d’assalto il castello e lo saccheggiano, come è accaduto a Biella, depredando tutto ciò che trovano nelle sale del Vescovo-Conte. Anche Andorno aveva la sua Badia, come risulta da una scheda di Quintino Sella che annota l’esistenza della bandiera, al XVI secolo, dell’abà di colà.
I Challant hanno ben lavorato per i loro padroni: due anni appresso (1379) le repubbliche di Biella e Andorno (29 ottobre) si danno ai Savoia, che così estendono i confini dei loro stati. Occorre dire che se il territorio dei Savoia è al sicuro oltralpe, in Piemonte (ad eccezione della Val Susa, che non dà problemi) si devono fare i conti con lo spirito di libertà che da sempre anima i montanari (valdostani, canavesani, biellesi ecc.) e, in pianura, con le famiglie dei Signori che posseggono una storia non meno illustre dei Savoia, i quali non hanno diritti feudali da far valere nei confronti di quelli.
Per comprendere il “tuchinaggio” piemontese occorre pertanto ben considerare il contesto del momento: da una parte, fame e miseria dei montanari, che rifiutano il “sistema” (leggi, economia, cultura, organizzazione) della società che sta preparando la formazione dello Stato moderno; dall’altra, giochi politici dei nobili, divisi tra coloro che salivano sul carro sabaudo dei vincitori e quelli che, estromessi, aizzano la povera gente, la cui rivolta è usata, maneggiata dagli uni per estendere il proprio potere e dagli altri per riconquistarlo. Non possiamo pertanto concordare con chi vede nel tuchinaggio soltanto un episodio della guerra di guelfi (i San Martino, i Castellamonte), amici dei Savoia, contro ghibellini (i Sangiorgio, i Valperga, i Masino), travestiti da Tuchini
[8]. Se le rivolte di Biella e di Andorno del 1377 possono essere considerate, come quella di Montpellier, i primi episodi del tuchinaggio; e se già nel Canavese nel 1374 il Marchese del Monferrato sosteneva i signori di Valperga (ghibellini) contro i San Martino (guelfi) alleati dei Savoia, che premevano per estendere i loro domini in Piemonte, è però nel 1385 che la rabbia montanara (già esplosa in Valsesia con Dolcino, 1304-1307, e a Chieri, 1336-1339) straripa in Valle d’Aosta e in Piemonte.

Il duca di Berry, Giovanni “il Magnifico”, non fa neppure a tempo a rallegrarsi per la vittoria di Mentières, che avrebbe dovuto eliminare per sempre il tuchinaggio, quando, un anno dopo, sua figlia Bona, andata sposa ad Amedeo VII di Savoia, il “Conte Rosso”, invoca soccorso: i Tuchini spariti in Occitania, compaiono come per miracolo in Piemonte.
Come già avvenne in Occitania, dove l’insurrezione ha avuto luogo in una regione di confine (l’Alvernia, provincia di frontiera con l’Aquitania, soggetta alla corona inglese), in Piemonte levano la testa i montanari al confine tra lo Stato dei Savoia e i Signori piemontesi indipendenti. I primi ad insorgere sono i montanari di Pont Canavese (1385): ne approfitta Teodoro TI marchese del Monferrato, che esige il giuramento di fedeltà anche dagli abitanti delle vallate. Il Conte Rosso non può accettare che il Marchese rinforzi il suo potere dove i Savoia mirano di giungere, e manda i suoi soldati. I montanari ribelli si trovano tra due fuochi, e non ne vogliono sapere di Signori che giungono per sopprimere le loro libertà: tosto si ribellano anche Strambino, Romano Canavese, Scaramagno, Valfré, Perosa Canavese; San Martino, Torre Canavese, Castellamonte, Baldissero, Parella, Lessolo; le valli di Brosso e di Chy (e con questi due paesi, Trausella, Drusacco, Novareglia, Meugliano, Rueglio, Gàuns, Issiglio, Vistrorio, Villa, Muriaglio, Vico, Campo, Castelnuovo, Borgiallo); la val Soana (Frassineto, Ingria, Ronco, Campiglia); la valle Orco (Ceresole, Noasca, Soana, Ribordone, Sparone, Pont); Cuorgné, S. Colombano, Canischio, Prascorsano, Cavagna, Salassa, Barbania, Front, Andrate e, fuori dal Canavese, sulla Serra biellese, Sala, e giù nella pianura vercellese, Bianzé. Nel Monferrato, Cono dà ospitalità ai Tuchini; tentativi di rivolta ci sono a Montaldo Dora e Cirié. I castelli di Brosso, Chy, Lèssolo, Strambinello, Loranzé, Montesrutto, Scaramagno e Castellamonte sono presi e distrutti; a Brosso e a Castellamonte i feudatari fanno una brutta fine; in val di Brosso ancor oggi mostrano il “piano delle battaglie”, e la collina da dove avrebbero precipitato il feudatario, e il “piano delle forche”, dove sono stati impiccati i prigionieri al termine della rivolta. Non ci vuol molto a che i ribelli si trovino chiusi nelle loro valli, senza la possibilità di ricevere rinforzi e provviste; il Conte Rosso proibisce a tutti di dar rifugio e cibo agli insorti; ma quelli di Cogne, in val d’Aosta, riescono comunque ad aiutare i fratelli valsoanini, mandando armi e provviste.
Le bande di Tuchini sono formate da disperati, mezzi nudi, soltanto ricoperti da alcuni stracci (ché a quei tempi neppure i signori portavano la camicia), rossi come il famoso berretto che portavano in capo e che 400 anni dopo diventerà simbolo della grande rivoluzione. Non ci sono primi comandanti, come invece sembra ci siano stati in Occitania; piuttosto, ogni comunità aveva una compagnia di giovani con il suo capo, l’abà. Dai primi processi, veniamo a conoscenza di alcuni nomi. Tra il 1387 e l’89, hanno tenuto in carcere per 68 settimane, e poi, con una grossa catena al collo, trascinato alla forca del conte di Cirié, Giacomo Pich[9]. L’11 dicembre 1390, Bonifacio di Challant, castellano di Bard in valle d’Aosta, ha prelevato a Ivrea sei Tuchini: Martino, detto “il bastardo di Challò”; Francesco, detto “Malacarn”; Vola, da Castelnuovo; Giovanni Rusa; Martino, figlio di Piero Piazza; e Giachetto, detto “l’Oysel” (l’uccello)[10], e impiccati. A Ivrea sono stati pure impiccati (gennaio 1391): Pietro Pichon, Giovanni Bianchetto, Giovanni Castargi, Pierino de Facio, Giacomo della Perina, Giacomo Camaria e Anselmo Pilato[11]. Se la sono cavata con il pagamento di ammende: Marco d’Ambrogio e Antonio Galliano[12]. A. Bertolotti[13] riporta elenchi di nomi di coloro che hanno dovuto pagare ammende per essere stati coinvolti, in un modo o nell’altro, nella ribellione. Anche le donne si sono date da fare (non dimentichiamo che con Dolcino era Margherita…), come quella di Graziotto Paré (di Lanzo), Alaina Pelotta e una certa Montanegra, valsesiana attiva nella ribellione di Montestrutto (sulla strada per Settimo Vittone).

Quando, come abbiamo visto, nel 1386 la rivolta è divenuta generale, la vedova del Conte Verde e madre del Rosso, Bona di Borbone, manda Ottone di Grandson per organizzare la repressione. Benché qualcuno dei ribelli gridi “Vivat Savoya et populus”, sembra chiaro che la rivolta sia strumentalizzata da Teodoro II di Monferrato e dai Signori suoi amici, in concorrenza con i Savoia miranti ad allargare il loro dominio. Facino Cane (Bonifacino, nato a Casale verso il 1360, morto a Pavia nel 1412) aiuta i Tuchini e fa le prime esperienze di capitano di ventura, giungendo sino ai dintorni di Santhià. Il 15 maggio, Teodoro II conquista Balangero, e persino Torino è minacciata. Il principe Amedeo Savoia di Acaia organizza la difesa sabauda sulla linea del Sangone, da Rivalta a Moncalieri, e rinforza la posizione di Gasso, Carignano, Vigone e Chieri. Il 10 giugno 1386, da Parigi il Conte Rosso giunge a Cirié, e apprende che il marchese del Monferrato ha posto l’assedio a Verrua, aiutato anche da Enrico di Saluzzo e da Gian Galeazzo Visconti. Amedeo VII riconquista Balangero, attacca Corio, intanto che Ibleto di Challant, come aveva fatto a Biella e ad Andorno nel 1377, si reca nel Canavese per convincere i ribelli ad accettare la protezione dei Savoia. Infatti il 9 luglio il Challant stipula la pace con i Tuchini della val di Brosso, che denunciano la tirannia del conte di San Martino, sotto il mantello dei Savoia. Il 28 luglio, il Conte Rosso conferma gli accordi. Ma da lì a poco, la ribellione continua perché dai patti sono rimaste escluse le valli di Pont, Soana e di Chy; e perché i San Martino, sotto il mantello dei Savoia, continuano imperturbabili a fare come prima, e intendono vendicarsi. Il Conte Rosso per due anni va e viene dal Canavese, nel tentativo di risolvere le controversie; il 5 agosto, dà una gran cena a Ivrea; in quell’occasione si danza la moresca, un’antica danza simile a quella degli spadonari ma con l’uso di bastoni. Negli anni tra il 1390 e il ’91, si giunge ad accomodamenti con le comunità; e il Tuchinaggio, cominciato nell’Alvernia occitana trent’anni prima, sembra finito. Da Sala biellese alla val Chiusella si inalberano forche dove pendono i più ostinati e rabbiosi, che avevano percorso le valli di notte, al chiarore della luna, armati di tridenti, forche, roncole e falci per cercare di organizzare, con la forza della disperazione, la resistenza a un potere feudale che avrebbe finito con l’estinguere la civiltà selvaggia dell’uomo delle Alpi[14].

Ma il Tuchinaggio non era morto. Già nel 1395, il Conte Rosso obbliga le comunità della valle di Pont a pagare grosse somme per aver appoggiato ancora i Tuchini.
Nel 1441, troviamo in pieno svolgimento il Secondo Tuchinaggio, che durerà più di un secolo. I nobili fanno prigionieri, tra i ribelli di Noasca, Locana e Ceresole: Matteo Perotti, Pietro dei Guglielmi, Pietro Vitonà, Giovanni Giletti. I montanari debbono chiedere perdono e trovare un accomodamento con i Signori: una sentenza arbitrale condanna a pagare in solido 300 formi d’oro in tre anni i paesani di Pont ritenuti colpevoli
[15]. Ma purtroppo quando un Principe muore, il successore dimentica i patti firmati dal precedente, e ai montanari tocca sempre pagare per la conferma. Altrimenti non resta che riprendere la lotta. Così Ludovico di Savoia si rimangia le franchigie riconosciute alle comunità canavesane, poiché i feudatari lo pagano al fine di farle revocare. Una delle vertenze tradizionali concerne il patrimonio delle vedove, che le comunità volevano amministrare, e che i feudatari pretendevano di ereditare. I Tuchini si ribellano. Nel 1448, i Signori fanno di tutto per estirpare il Tuchinaggio da Pont, Locana, Ceresole, dalle valli dell’Orco e di Brosso.
Il 15 settembre del 1447, gli uomini di Pont e delle valli, che si erano ancora ribellati, promettono di stare tranquilli. Quelli di Pont sono rappresentati da Antonio de Muso, probabilmente un abà, poiché non risulta sia membro della “credenza”, né console. Piuttosto di sopportare le prepotenze dei feudatari, i montanari propongono di pagare 2.000 fiorini d’oro al Duca di Savoia per passare direttamente sotto la sua giurisdizione: anche le valli di Brosso e di Lessolo sono d’accordo. Ma nel 1448 i montanari della val Soana patiscono ancora la prepotenza dei nobili e si ribellano. Il Duca di savoia invia rinforzi contro i Tuchini, che sono chiusi nelle loro valli, senza possibilità di ricevere aiuti e rifornimenti dall’esterno; tuttavia qualcuno vi riesce. Leone Richetta, Giacomo Capra e Domenico Gay, benché il loro paese, Cuorgné, sia in pace sin dal tempo dell’accomodamento del 1391, sono puniti con ingenti ammende per aver aiutato i Tuchini della val di Brosso.
Il 24 marzo 1449, il Duca di Savoia accetta i tributi direttamente da Pont e dalle valli, che versano la prima rata di 2.000 fiorini d’oro e che, in più, s’impegnano per 360 ducati di foraggio annuali. Nel 1450 il Duca emana sentenza contro i montanari di Brosso, di Chy, della Novalesa, di Pont, di Lessolo: a causa della ribellione, le comunità perdono la proprietà dei pascoli e degli alpeggi.
Ma nel 1535 i Tuchini tornano ad alzare la testa in va1 Soana. I montanari si ribellano alle prepotenze, calando a Pont contro i Conti di Valperga che pure, negli anni del primo Tuchinaggio, avevano aiutato nascostamente i ribelli, per timore dei Savoia; ora devono rinchiudersi, con le loro donne e le cose preziose, entro la torre Ferranda che i montanari assediano furiosamente. La ribellione dei soanini dura quattro anni, ed è questo il tempo detto del “Secondo Tuchinaggio”. Più d’una volta, i Tuchini della bassa val Soana calano su Pont, attaccano i castelli di Telario e della Ferranda, e poi tornano ai loro abituri con il bottino di guerra. Ma dopo tanto guerreggiare, alla fine, sfiniti, senza più nulla da mangiare per non aver più avuto tempo né modo di curare il bestiame e di lavorare, devono, come si diceva allora, demander boule, arrendersi. I valsoanini cercano di giustificarsi, dicendo che la causa della ribellione è da imputarsi soltanto ai giovani delle parrocchie della bassa valle. I nobili, non soddisfatti della repressione che pure ha già fatto distruzioni e massacri nei villaggi, fanno i sostenuti innanzi al Duca di Savoia che li aveva aiutati e che, ora, si presenta come giudice disposto al perdono, richiesto dai montanari in ginocchio, con la solenne promessa di mai più riunirsi sotto le bandiere dell’abà che, come ben sottolinea A. Bertolotti, è poi l’abà di oggi, cioè il capo dei giovani organizzatori delle feste, dei carnevali e delle baldorie
[16].
Il perdono giunge, ma otto dei giovani più compromessi e rissosi rimangono prigionieri, come ostaggi, nelle mani dei nobili. Conosciamo alcuni dei loro nomi: Domenico Peretti, Giovanni Albi, Antonio Bruna, Guglielmo Balia, Martino Piacio, don Giovanni Canavesi e don Domenico Peradotto. Come si può notare, anche dei sacerdoti si sono posti al fianco dei ribelli, così come poi succederà al tempo dei giacobini e del dominio napoleonico.
Dieci anni dopo (1545) i valsoanini fanno l’ultima ribellione, e calano ancora su Pont, dove danneggiano i castelli. Vi è qualche morto, ma è soltanto una piccola battaglia, se comparata a quelle degli anni 1335-1345, quando le bande di Tuchini erano formate da alcune centinaia di giovani armati. Il 14 giugno, il Duca di Savoia concede il perdono e promette che i nobili non avrebbero più molestato i valsoanini, neppure per vendicarsi o reclamare i danni. Nel 1558 Emanuele Filiberto rilascia un salvacondotto agli uomini di Pont e della valle, per i loro commerci, riconfermato con gli Statuti comunali del 1562. Dopo di che non si parlerà più di Tuchini, ma le Badie giovanili avranno ancora occasione di manifestare le loro competenze “politiche”.

Infatti, la prova che le Badie, come giustamente scrive G.C. Pola Falletti[17], fossero l’arma di cui il popolo disponeva nelle sue lotte contro i Signori feudali, la ritroviamo ancora. Il 20 settembre 1563, l’abà di Barbania, con un gruppo dei suoi, tira una schioppettata al conte di Levone, uccidendo un tal Gayda che è con lui, per una lite riguardante il canale del mulino[18]. Il 4 maggio 1584, le badie di Forno e di Rivara fanno una spedizione armata contro Busano, per occupare il bosco della Fraschetta, che quelli di Busano pretendono sia loro[19]. Nel 1529, la badia di Vische si ribella al suo Signore, gli mozza il capo che infilza su una picca, e quelli di Crescentino danno loro man forte; le lotte tra i Signori e le due badie di Crescentino e Vische continuano per diversi anni[20].
Azione politica è quella della badia di Rivarolo Canavese, per la contesa con il Comune di Osegna, a causa del convento della Madonna di Goretto dove, per la festa dell’8 settembre, quelli di Osegna non volevano che la badia di Rivarolo aprisse esercizi di osteria, mettesse banchi di vendita ecc. La lite dura vari anni sul piano legale, ma durante le feste organizzate dalle due badie i giovani dei due paesi se le davano di santa ragione
[21].
È chiaro dunque che le badie non erano soltanto compagnie per indire feste patronali e stagionali, ma anche per preservare i diritti delle comunità: i confini, prima di tutto; ma anche per difendersi dalle pretese dei feudatari di ereditare il patrimonio delle vedove: le “tutele” erano divenute come un diritto del sovrano, poi passato ai feudatari, mentre invece le badie avevano da sempre avuto il controllo sulle vedove: se da una parte ciò rappresentava una protezione per gli orfani, dall’altra era anche garanzia che il patrimonio non venisse sperperato e rimanesse integro alla comunità. Per questo, i matrimoni dei vedovi erano poco accettati, e in quelle occasioni la badia organizzava chiassate di dileggio e protesta (chiarivarì o chabra). Ciò si riscontra già nelle cause della ribellione biellese al vescovo-conte Giovanni Fieschi del 1377 (che pretendeva di ereditare da coloro che morivano senza testamento), e in quella dei valsoanini del Secondo Tuchinaggio (1440-1559)
[22].

Ovviamente, nel Tuchinaggio la ribellione coinvolge tutta la popolazione, ma la badia ne era l’anima in quanto vendicatrice dei diritti della comunità. Altra circostanza da annotare è che i Tuchini appaiono sovente come “compagni” di società segreta; anche per questo è difficile documentare la badia. Si sa che i Tuchins occitani erano legati da un giuramento, e che parlavano un gergo per non farsi capire. Ebbene, anche la val Soana e la val Locana sono caratterizzate da un loro gergo, il taròm de rusca, usato sino ai nostri tempi dai calderai e dagli spazzacamini, ma conosciuto in pratica da tutti i montanari di lassù[23].
Come abbiamo detto, il carnevale era la festa “badiale” più importante, come ci si può rendere conto assistendo ancora oggi alla bahìo di Sampeyre (val Varaita, Cuneo) e al carnevale di Ivrea (dove, in pratica, si fa il teatro del Tuchinaggio)
[24].
In Occitania, tra l’Ariège e l’alta Garonna dal 1829 al 1872 si è svolta la strana guerra detta delle Demoiselles, in pratica un carnaval engagé; i giovani, vestiti da donna (come è d’uso in diversi carnevali) aggredivano i carbonai e le guardie forestali (dette “le salamandre”, per via delle uniformi gialle e nere), per rivendicare la proprietà comunitaria dei boschi, divenuti demaniali: tali aggressioni avvenivano puntualmente durante i giorni del carnevale
[25].
Anche la rivolta delle tessitrici di Sala Biellese (17 febbraio 1896) è iniziata di carnevale, subito dopo che 17 coppie di sposi avevano celebrato il loro matrimonio in chiesa, secondo l’uso che vigeva colà di celebrare una sola festa matrimoniale collettiva durante il carnevale
[26].
Abbiamo il ricordo di badie armate nel bal do sabre di Fenestrelle, Bagnasco, Vicoforte, Castelletto Stura; nelle danze degli spadonari di val Susa (Venaus, Giaglione, San Giorio), nelle compagnie di tiro, nella badia di Barbania che funge da guardia armata alla processione del santo patrono, nelle “milizie” di Bannio e di castelletto Stura (dov’è il “Reggimento degli Spiantati”)… Dunque l’epopea dei Tuchini è finita nelle tradizioni dei nostri carnevali e delle feste patronali, quasi a difesa di un deus loci intimo e segreto, ben radicato? Forse. Ma non si deve dimenticare che i Tuchini, come strenui difensori e ribelli di una “nazione contadina e montanara”, sono tornati alle armi anche in epoca contemporanea. Nel 1728, 150 uomini della badia di Novale, nelle Langhe, comandati da un “tenente”, dietro una bandiera issata da un alfiere e al suono del tamburo (sempre molto importante nelle rivolte!) si ribellano perché non vogliono che le terre del convento di San Balegno diventino di proprietà del re…
Poi, montanari e contadini ribelli cambiano “segno”: non sono più chiamati Tuchini, ma Branda in Piemonte, e Socques in valle d’Aosta (dove le tre ribellioni sono dette: primo, secondo e terzo “reggimento degli zoccoli”: 1799, 1801 e l’ultimo, 1853, contro le imposte, quando furono difesi anche dal progressista Brofferio) al tempo dell’occupazione francese (liberté, égalité, fraternité… ij fransèis an caròssa e noi a pé!). A torto ritenuti “reazionari”, Branda e Socques erano invece espressioni della rabbia dei contadini e dei montanari, emarginati da una società che si pretendeva progressista (“di via Po”, diceva con ironia Brofferio) ma che, del mondo della campagna e delle Alpi, non aveva compreso nulla, sempre continuando a opprimerlo e a sfruttarlo. I giacobini, i “cittadini”, davano man forte ai nuovi padroni, e deludevano le speranze rivoluzionarie di giustizia e di pace.
Poi, negli anni dal 1943 al 1945, con la Resistenza anche il Tuchinaggio farà l’ultima sua ribellione. Quando il poeta canterà:
 La mia patria l’è s’la montagna,
l’è ’nsema ai pi giovo e ai pi fòrt
ch’a sfido la fam e la mòrt…,
l’è ’nsema ai bandì dla miseria,
l’è ’nsema ai farchèt dla speransa…
sla rochera servaja e ‘n sël ciapel tut bianch,
le fior dij patriòta a son color dël sangh.

(La mia patria è sulla montagna,
è insieme ai più giovani ed ai più forti
che sfidano la fame e la morte…,
è insieme ai banditi della miseria,
insieme ai falchi della speranza…
sulla roccia selvaggia e sulla morena tutta bianca,
i fiori dei patrioti hanno il colore del sangue).

Nino Costa


[1] Cfr. A. Bertolotti, Passeggiate nel Canavese, tomo III, Ivrea 1873, pp. 159-160.
[2] G. de Sède, 700 ans de révoltes occitanes, Plon, Paris 1982, p. 54.
[3] Cfr. M. Ruggiero, Storia del Piemonte, Piemonte in bancarella, Torino 1983, p. 207 e ss.

[4] T. Burat, Rèis e sava dël carlëvé nostran, in “Ij Brandé, armanach ëd poesìa piemontèisa”, Turin 1983, pp. 57-7 1.

[5] Processus insigni contra Bernard Délicieux, Manuscrit latin N° 4270, Bibliothèque Nationale, Paris. J. B. Hauréau, La vie hérétique de Bernard Délicieux, Paris 1931.
[6] Les Tuchiens du XIV Siècle, ne “Le peuple français” n° 8, 1979, janvier 1980.
[7] P. Vayra, Cronaca latina di Biella di Giacomo Orsi, Mosso, Biella 1890 (traduzione della Chronica Bugellae d’Ursus Jacobus Candelius, Biblioteca Nazionale di Torino, scritta tra il 1488 e il 1490).
[8] Per esempio, E. Gabotto, Il “tuchinaggio” nel Canavese e i prodromi dell’assedio di Verrua (agosto 1386 – maggio 1387), in “Bollettino Storico Subalpino”, 1896: il tuchinaggio, anziché come un moto spontaneo, va considerato come il prodotto di istigazioni partigiane del Paleologo e dei San Giorgio, Valperga e Masino, i quali spronarono il popolo contro i rivali per mezzo di accorti sobillatori che, naturalmente, non mancarono di dar da bere a rozzi e ingenui montanari le solite fole degli arruffapopoli, ricantando i nomi di usurpazione, prepotenza, libidine, da un lato; di giustizia, diritti, libertà dall’altro” (pp. 82-83). Se gli studiosi “ben pensanti” erano di quest’avviso, tuttavia ve n’erano altri più genuini che scrivevano: “Si poteva dire che due erano le classi, cioè oppressi ed oppressori. Ma veniamo alla giustizia, che dagli statuti dei comuni appare crudele come l’esposto. I delitti venivano puniti per mezzo del marchio sulla fronte e sulla guancia con ferro rovente, con amputazione della mano, di piede, di orecchia, di naso, foramento della lingua; col bando, colla fustigazione, appiccatura, abbruciamento, e privazione di un occhio. Gli ebrei si appendevano per un piede, le donne si annegavano: la pena capitale era sempre accompagnata dalla confisca degli averi. La tortura faceva confessare tutto quello che il giudice voleva; le prigioni erano gabbie appese sulla cima delle torri o al fondo delle medesime. Le pene potevano quasi sempre essere commutate in denaro, ma siccome questo era scarso, perciò le amputazioni erano frequenti e la turba dei monchi, dei segnati, presentava uno spettacolo ributtante. (…) Se questi mali si può dire regnavano ovunque, nel Canavesano erano maggiori a cagione delle risse dei feudatari tra loro (…). La giurisdizione, che le due famiglie Valperga e San Martino avevano a metà nelle terre, dava origine a che sovente in un villaggio stesso trovavansi due castelli, che due case vicine fossero fortificate l’una contro l’altra, e che il padre si trovasse contro il genero, il fratello contro il cognato (…). I capi-casa di ogni villaggio giurarono come a Pontida di far libero il suolo dai tiranni: per loro il mezzo poco importava purché si giungesse allo scopo. Debole argine erano i prezzolati “bravi” ai feudatari, migliore le forti mura; ma chi può vincere una popolazione insorta, furente nel mezzo delle proprie montagne! Nei conflitti corpo a corpo che valevano i giachi (maglie di corazza) o diploidi e le cervelliere (cuffie) di ferro, le spade, gli stocchi, le mazze dei berrovieri (i bravi scherani) e delle barbute (assoldati con elmi tutti chiusi e visiera cadente) contro le falci, i tridenti, maneggiati disperatamente! Nascosti di giorno nelle caverne (le balme), avendo disertato le abitazioni, aspettavano talvolta al varco il nobile col suo corteggio; uscivano poi di notte a guisa di fiere (come “branco di lupi”!) per dare assalto a questo od a quel castello ed a sorprendere il passaggio di qualche corpo armato. Guerra letale, scoppiata per santa causa…”, A. Bertolotti, cit., pp. 161, 167 e ss.
[9] Archivio Camer. di Torino, Conto Castellania di Cirié, Rot. 1387-1389.
[10] Archivio cit., Conto Castellania di Bard, Rot. 1390-91.
[11] Ibidem, Conto Castellania di Ivrea, Rot. 1390-1391.
[12] L. Cobrario, Il Conte Rosso, p. 39.
[13] A. Bertolotti, cit., Tomo IV, cfr. p. es. p. 9 per Pont; p. 292 per Cuorgné. Bertolotti fa anche l’elenco di coloro che hanno dovuto pagare per la rivolta del 2° Tuchinaggio (1441), ecc.
[14] Sul Tuchinaggio a Sala, nel versante biellese della Serra, cfr. G. Zanetto, Il vetusto torrazzo della Serra, Ivrea 1961, p. 86.
[15] A Bertolotti, cit., Tomo VI, pp. 10, 96, 192-194, 216, 233-234.
[16] Ibidem, p. 15.
[17] G.C. Pola Falletti-Villafalletto, Associazioni giovanili e feste antiche, vol. I, Torino 1939, pp. 71, 208, 468 e ss.
[18] Archivio di Stato di Torino, Sezione III, Carte dei Conti Valperga-Rivara, n. 114, mazzo 3.
[19] Ibidem.
[20] Don G. Bianco, La città di Crescentino, pp. 212 e ss.
[21] G.C. Pola Falletti-Villafalletto, cit., pp. 473-480. L’Autore porta anche altri esempi (pp. 477-480) di badie che, ancora nel secolo XVIII, si sono ribellate contro i Savoia (Falletto e Novello nell’Albese).
[22] A. Bertolotti, cit., Tomo VI, pp. 14-16, 98-101. In pratica, le rivolte dei Tuchini piemontesi sono durate 160 anni, dal 1385 al 1545 se si conta anche l’ultima battaglia di quell’anno; ma la grande rivolta era già terminata dieci anni prima.
[23] C. Nigra, Il gergo dei Valsoanini, “Archivio Glottologico Italiano”, III (1874), pp. 53-60; A. Dauzar, Les argots des métiers franco-provenaux, Champion ed., Paris 1917, pp. 48-59; P. Pasquali, Nuovo contributo allo studio e alla conoscenza del gergo Valsoanino, Atti III Congresso delle Tradizioni Popolari (1934), OND, Roma 1937, pp. 613-617; A. Aly Belfadel, Gergo degli spazzacamini di Intragna (Taròm di rusca), in “Archivio di Psichiatria, Scienze penali ecc.”, XXX (1909), Torino, pp. 369-78.
[24] Nel carnevale di Ivrea, la parte degli abà è ora impersonata da bambini, sostituiti ai giovani al tempo della
dominazione napoleonica, quando si temeva che la presenza di abà giovanili, nel pieno vigore delle forze, potesse essere pericolosa per l’Autorità, rievocando le insurrezioni rustiche e dando luogo così a un carnaval engagé.
[25] E Baby, La Guerre des Demoiselles en Ariège, Saverdun 1972 (tesi di laurea pubblicata a cura dell’Autore); C. Lober, La Guerre des Demoiselles, in “Gendarmerie Nationale” n. 63, 1er trimestre 1965; G. de Sède, Lutte et psycodrame: l’étrange guerre des Demoiselles, in 700 ans de révoltes occitanes, cit., pp. 145-163.
[26] (A cura del Comune di Sala), Sala Biellese, Torino 1976; A.S. Bessone, La rivolta di Sala. Tra gli ultimi giansenisti ed i primi socialisti, Centro Studi Biellesi, 1976; Roberto Gremmo, La “repubblica” di Sala del febbraio 1896, Centro Esperantista ed., Milan s.d. (ma 1976); M. Kuttel, La pérégrine (romanzo), L’age d’homme ed., Lausanne 1983, pp. 58-64; Don G. Zacchero, Sala. Chiesa, Comune, Lavoro, Emigrazione.
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