L’eresia delle femmine ribelli

L’eresia delle femmine ribelli
Donne, foreste e montagne…

Michela Zucca

L'intervento di Michela Zucca è previsto nel pomeriggio di sabato 1 settembre


I popoli alpini hanno tentato, in ogni modo, di opporsi all’omologazione culturale e alla soppressione delle proprie tradizioni. In questa lunga lotta contro l’espropriazione portata dallo Stato moderno in formazione, le donne hanno combattuto in prima fila: come guerriere armate ma anche come intellettuali e soprattutto come custodi della memoria,


In un famoso processo per stregoneria iniziato a Milano nel 1390, le accusate, Sibillia e Pierina, fanno esplicito riferimento alla Signora, chiamata Diana, e alle riunioni che presiede il giovedì, a cui partecipano anche gli animali a due a due, tutti meno l’asino, che porta una croce sulla groppa: la Dea insegna i segreti delle erbe che servono per curare. È la divinità che presiede alle selve, per i greci Artemide, per i romani Diana: cacciatrice e protettrice degli animali selvatici, ma anche delle partorienti. È la grande matrice del mondo, al di là delle zone abitate dagli uomini (civili): nutre i cuccioli con il latte delle proprie mammelle, è la guardiana di misteri crudeli. È l’iniziatrice alla conoscenza della natura non umana. Non la si può né vedere né avvicinare. È la matrice, la materia e la madre insieme. È lo spirito del bosco, che fa nascere un’immensità di specie, di forme, che sorveglia la vicinanza originale con la rete di corrispondenze materiali che animano la selva. Negli spazi selvaggi, non esistono differenze irriducibili. Il suo ricordo rimarrà a lungo nella memoria popolare, e molti processi alle streghe, prima che del demonio, parlano proprio di Lei. È l’archetipo della Donna Selvaggia che prende il nome di una dea, e che serve per preservare un’intera civiltà: la cultura della foresta.
E mentre nelle città romane prima e cristiane poi trionfa una religione che serve le classi dominanti e che in seguito modella essa stessa chi avrà il privilegio di governare, sotto l’ombra materna degli alberi millenari si continua ad adorare la Grande Dea.
Per tutto il Medio Evo immense foreste meravigliose ricoprono il continente nell’indifferenza dei tempi. Qua e là piccoli insediamenti umani sparsi sopravvivevano con la caccia e la raccolta di quanto il bosco poteva offrire. Per il nuovo ordine sociale che si riorganizzava lentamente sulla base delle istituzioni feudali e religiose le foreste erano, per l’appunto, foris, all’esterno. Là vivevano i proscritti, i folli, gli amanti, i briganti, i fuggitivi, i disadattati, gli eremiti, i santi, i lebbrosi, i rivoluzionari, gli eretici, i perseguitati, le streghe, le donne perdute, gli uomini selvaggi. Ma non solo: in periodi di grande instabilità, di invasioni e di scorrerie violente da parte di popoli stranieri, sull’arco alpino (ma non solo) molte città spariscono completamente, e gli abitanti superstiti si ritirano a vivere nelle grotte, al di fuori dei sentieri battuti dalle orde di barbari, protetti dalle fronde di boschi impenetrabili.
Il fenomeno del vagabondaggio fuorilegge, del resto, rispecchiava l’estrema mobilità di una parte della società medioevale, la population flottante: mercanti, sensali, venditori ambulanti e girovaghi, artigiani, diffusissimi sull’intero arco alpino fino a pochi decenni fa (ogni valle si specializzava in un mestiere); carbonai, altri personaggi tipicamente alpini; monaci questuanti, o vaganti in fuga dal convento, frati perdonatori e venditori di reliquie, chierici senza patria, poeti cortigiani e cantastorie, trovatori, studenti itineranti che chiedevano la carità muniti della lettera col sigillo universitario, corrieri e cursori, indovini e chiromanti, negromanti ed eretici, settari e predicatori di ogni ordine e disordine, medicastri e guaritori, istrioni, bari e giocolieri, pellegrini autentici e non, visionari, “uomini di dio”, ebrei erranti e maledetti, mendicanti veri e falsi, soldati e mercenari, scampati dai pirati o dagli infedeli, servi fuggiaschi, maestri e apprendisti. A partire dal Tardo Medio Evo si aggiungono gli zingari, arrivati dall’India attraverso una migrazione secolare. E ogni gruppo con il proprio linguaggio “corporativo” o gergo segreto (la lingua occulta), coi suoi santi, le sue cantilene e salmodie, le sue pentole, i suoi sogni.
Le schiere di sbandati spinti alla ribalderia dalle guerre, dalle imposte, dalla fame, dovevano essere davvero tante: la società medioevale getta sulle strade, e nel bosco, le sue frange più deboli. Il numero degli esclusi aumenta vertiginosamente (cfr. Piero Camporesi, Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino 1973), e questa gente raggiunge – e vi si unisce fino a confondervisi – il preesistente “popolo della foresta e delle montagne”. E dove sarebbero potuti andare? Scappare dalla legge e dalla società degli uomini civili era ritrovarsi automaticamente “al monte” (ancora oggi, in Sud America, di un guerrigliero che «entra in clandestinità» si dice che «se ne va in montagna», «fuirse para el monte», anche se magari non esistono nemmeno dei rilievi nella zona in cui si scappa: ma «monte» e «selva» sono sinonimi di spazio segreto, al riparo della legalità, popolato da gente che protegge il fuggiasco).
La Chiesa cristiana, che nel frattempo cercava di unificare l’Europa sotto il segno della croce, era fondamentalmente ostile alle montagne, queste barriere impassibili di natura incolta. I princìpi di identità e di non contraddizione, fondamenti della logica che presiede al pensiero dell’uomo civile, svaniscono nella foresta. Il profano si trasforma in sacro, i fuorilegge diventano i difensori di una giustizia superiore: vedi il mito di Robin Hood, diffuso sotto varie forme su tutto il continente europeo. Che la legge sia religiosa, politica, psicologica, o anche solo logica, la foresta la destabilizza. Le foreste sono al di là della legge: o meglio, fuori dalla legge. La bestialità, la caduta, il nomadismo, la perdizione: queste le immagini che la mitologia cristiana associa alla foresta e alla montagna.
Dal punto di vista teologico, i boschi rappresentano l’anarchia della materia. Essendo l’esatto contrario del mondo creato a immagine di Dio, erano considerati come gli ultimi bastioni del culto pagano. Nelle tenebrose foreste celtiche regnavano i druidi; in Germania esistevano i boschi sacri; di notte, appena fuori dalle città, assediate da vicino dalla selva sterminata, le streghe celebravano i loro riti. Antichi demoni, fate e spiriti della natura si aggiravano fra gli alberi, e la popolazione manteneva e coltivava i legami tradizionali con il passato pagano. Distruggere i boschi non significava soltanto ridurre in cenere innumerevoli secoli di crescita naturale: significava soprattutto annullare i fondamenti della memoria culturale della gente che li abitava. Infatti, disboscamento e sradicamento di alberi sacri furono attività a cui le gerarchie ecclesiastiche si applicarono devotamente e con profitto.

 

In Italia, il luogo in cui la memoria storica dell’antica società è rimasto più a lungo sono le Marche, regione fuori dalle grande strade commerciali e militari, coperte di montagne e di boschi un tempo quasi impenetrabili. Là antiche sacerdotesse, depositarie della conoscenza magica ma anche del potere sulle proprie comunità, hanno lasciato il nome al territorio che per millenni le ha ospitate: i Monti Sibillini. L’organizzazione sociale e politica “sibillina”, anche dopo l’Unità d’Italia, si reggeva sulle comunanze: praticamente, la proprietà privata non esisteva; non solo il bosco e il pascolo erano di uso collettivo ma anche il seminativo veniva coltivato a turno dalle famiglie che facevano parte della comunità. La civiltà delle Sibille è stata, per secoli, un punto di riferimento e di attrazione per gli intellettuali che contestavano l’organizzazione statale. Cecco d’Ascoli fu mandato al rogo per aver avuto rapporti con i negromanti e le Sibille dei Monti Sibillini. Molti pensatori fra i più noti, dal ’300 al ’600, dal cavaliere De La Salle ad Agrippa fon Nettesheim, da Benvenuto Cellini ad Andrea Silvio Piccolomini, andarono a visitare la Sibilla, passando per Norcia, in Umbria, o per Monte Monaco, nelle Marche. Lì chiedevano un mulo e una guida per avventurarsi sulle montagne. E quello che trovavano non era una vecchia stravagante che leggeva la mano davanti a una grotta, ma una comunità di contadini, pastori, artigiani, tessitrici, guaritrici che vivevano secondo regole diverse da quelle che erano imposte dalle società di pianura. Quelle montagne, come le Alpi, divennero rifugio di tutti coloro che non erano d’accordo con il potere: eretici, libertari, templari sopravvissuti alle stragi di Filippo il Bello, catari, anabattisti, o semplicemente intellettuali che non accettavano l’egemonia teocratico-militare degli stati in formazione. Tutto ciò causò una feroce persecuzione nei primi anni del ’300: i francescani locali accusarono le Sibille di aver preparato un avvelenamento a distanza contro Papa Giovanni XXII. E sulle montagne delle matriarche fiammeggiarono i roghi.

Per quanto riguarda le streghe delle Alpi, non ci troviamo di fronte a una maniera “popolare” di interpretare il cristianesimo, ma a un’altra forma di religione, che venera una Grande Madre e vede nel cattolicesimo l’avversario. Il diavolo è un personaggio che viene introdotto dagli inquisitori: prima era soltanto il segretario-servo della Dea. Il Satana del sabba, dotato di corna, corpo peloso e zampe di capra, è l’erede diretto del dio Pan: i preti non riuscivano a tollerare un dio femmina. Le streghe della Simmenthal (Svizzera) avevano coscientemente abiurato il cristianesimo per adorare il diavolo, che chiamavano “piccolo padrone”: si tratta di un preciso atto di insubordinazione. D’altra parte, non si può pensare che queste donne, specie dopo l’inizio delle persecuzioni, non fossero consapevoli del rischio che correvano continuando a praticare gli antichi riti, vedendo amiche, parenti, compagne e colleghe bruciare sui roghi.

La rivolta di classe è un tema ricorrente nelle descrizioni del sabba. Non solo la festa terminava con la narrazione dei crimini commessi dai partecipanti, ma le streghe in prima persona venivano specificamente incoraggiate dal diavolo a ribellarsi contro i padroni. Lo stesso accordo col demonio era chiamato dagli inquisitori conjuratio, come il patto che si stringeva fra i lavoratori in lotta. E le rivendicazioni contro i proprietari e i datori di lavoro, in particolare l’attacco contro la proprietà, venivano spesso bollate come stregoneria. Belzebù rappresentava, nell’ottica dei persecutori, una promessa di potere, amore e ricchezza per cui si era disposti a vendere anche l’anima, e cioè a infrangere ogni legge, morale e sociale. I rituali stessi attribuiti alla stregoneria, tutti centrati sul tema dell’inversione (la messa celebrata all’indietro, le danze nella direzione contraria a quella dell’orologio) sono sintomatici dell’identità che si stabilisce fra stregoneria e rivoluzione. La donna-strega è il simbolo del “lato nero” della natura, di quanto di incontrollabile, selvaggio, disordinato, violento può esistere sulla terra. La caccia alle streghe è stata un’arma potentissima contro ogni forma di insubordinazione sociale.
Esistono coincidenze quanto meno curiose fra le recrudescenze delle persecuzioni alle donne, la caccia agli eretici e l’esplodere delle grandi rivolte, sia urbane che contadine, che incendiano l’Europa rurale per ben tre secoli. E le Alpi si trovano sempre in mezzo a questi flussi continui, semiclandestini, di uomini e di idee: c’è da credere che i montanari abbiano appoggiato e offerto un buon rifugio a ogni tipo di fuorilegge. Ne è prova la grande presenza delle donne nei movimenti ereticali, e la somiglianza delle pene e delle accuse: nell’ultimo decennio del XIV secolo la Facoltà di Teologia di Parigi sancisce l’identificazione tra i due delitti. Anche gli eretici venivano puniti con il rogo e accusati di degenerazione sessuale, infanticidio, omosessualità. Quella che oggi definiremmo una “rivoluzione sessuale” è una componente fondamentale dei moti eretici, che guarda caso passano tutti per i sentieri delle Alpi: dagli Adamiti ai Luciferani, ai Fratelli del Libero Spirito… Sulla scia dei Catari, molti eretici rifiutavano il matrimonio e la procreazione e praticavano il libero amore, in un’ottica di egualitarismo tra i sessi che costituiva già di per sé una vera rivoluzione.
Il catarismo e le altre sette ereticali, inserendosi in contesti culturali dinamici, fornirono un’alternativa religiosa a gruppi e a individui già spontaneamente alla ricerca di identità autonome. Antichi schemi e consolidate gerarchie furono abbattuti. Un becchino (Marco di Lombardia) poté diventare vescovo cataro; nobili si convertirono allo stato di perfezione e si fecero tessitori; le idee dotte elaborate in ambienti colti furono fatte proprie dagli “incolti”, persino dai rustici e dai montanari, che fino ad allora si erano mantenuti ai margini dell’elaborazione di nuovi modelli di pensiero.
Evidentemente, al di là del rifugio offerto al perseguitato per un vincolo di naturale solidarietà contro il potere costituito, le idee della contestazione religiosa trovarono largo seguito sulle Alpi perché in qualche modo davano voce a rivendicazioni reali della gente comune. Considerata la straordinaria diffusione delle sette ereticali sulle Alpi, basata per forza di cose su una fitta rete di insediamenti appoggiati e sostenuti dalla popolazione (i primi predicatori venivano spesso dalle città, non avevano rapporti col territorio e non avrebbero potuto sopravvivere se la gente non li avesse nutriti e nascosti), si pensa che, almeno in parte, si sia trattato di un movimento rivoluzionario che legava tra loro gli strati più bassi della società, spinti a unirsi in comunità religiose per difendersi dallo sfruttamento dei primi imprenditori dell’industria laniera e dalla oppressione dei proprietari fondiari. Dai Catari ai Valdesi, agli Umiliati ai Dolciniani, ai Fratelli del Libero Spirito, tutti passarono per le nostre montagne, alcuni, da allora, non si sono più mossi, come i Valdesi.

Stando ai resoconti dei contemporanei, bande di banditi infestavano strade e sentieri di tutto l’arco alpino. A metà dell’XI secolo l’inglese Guglielmo di Malmesbury scriveva:

Le strade maestre che percorrono l’Italia erano così infestate da briganti sì che non vi era pellegrino che potesse percorrerle senza una robusta scorta. Nugoli di ladri assalivano i viandanti, né il viaggiatore riusciva con alcun mezzo a sfuggir loro (…). Così grande era il terrore ispirato da questi briganti, che il viaggio per Roma era cessato in ogni nazione e tutti preferivano versare l’obolo alla Chiesa del proprio Paese che nutrire un nugolo di grassatori con le proprie fatiche.

Alle derelitte bande di fuggiaschi dalla giustizia si univano donne che occasionalmente si prostituivano, ed erano quasi sempre serve scappate dai padroni, in gruppi che si trascinavano al seguito dei mercanti che portavano le merci da un mercato all’altro e degli eserciti in marcia. Evidentemente, piuttosto che cedere – gratis – l’unico bene di cui disponevano, avevano preferito amministrare da sé la propria forza-lavoro. Non c’è ragione per dubitare che partecipassero alle azioni di rapina e di saccheggio in prima persona. Madri, sorelle, mogli e amanti di fuorilegge, poi, ospitavano e appoggiavano i parenti senza denunciarli mai.

Le donne parteciparono in massa anche alle sommosse per poter utilizzare la risorsa principale della montagna: la foresta. Per il “popolo dei boschi”, il modo più facile di procurarsi il cibo era la caccia: ma un certo tipo di selvaggina era privilegio reale o nobiliare. E se per molto tempo gli aristocratici non si spinsero nel folto della macchia per paura, con lo sviluppo delle vie di comunicazione e l’ingrandirsi degli insediamenti di fondovalle gli sbirri dei signorotti cercarono di far rispettare i diritti dei loro padroni. In questi casi, sono le guardie forestali a impersonare il nemico, e sono anche le prime vittime delle rivolte contadine, le jacqueries, che raggiungono livelli di violenza e di ferocia difficilmente immaginabili. In queste ribellioni riemerge l’aspetto rituale della battaglia, che il cristianesimo aveva tentato di soffocare. Certe azioni, che gli storici hanno liquidato come “atti di violenza gratuita e irrazionale”, in realtà mantengono una spiegazione magica e religiosa arcaica. Per esempio, il cannibalismo, praticato fino all’età moderna durante i moti popolari; o le mutilazioni: operazioni in cui si distinguono proprio le donne.
La vendita pubblica di carne umana durante le insurrezioni popolari si inserisce in una tradizione che continua per tutto il Medio Evo. A Montpellier, nel 1380, i rivoltosi squartarono gli ufficiali del re, mangiarono la loro “carne battezzata” o la buttarono in pasto alle bestie. Ancora a Romans, nel 1580, la gente si solleva contro le decime e le taglie: contadini e artigiani affollano le strade minacciando che “fra tre giorni si venderà carne di cristiani a sei pence la libbra”. Ad Agen nel 1653 le donne compiono mutilazioni rituali sui corpi delle vittime: una strappa gli occhi a un gabelliere morto e se li porta a casa avvolti in un fazzoletto; un’altra gli taglia i testicoli e li dà da mangiare al proprio cane (cfr. Silvia Federici – Leopoldina Fortunato, Il grande Calibano). E via dicendo. D’altra parte, l’usanza celtica prescriveva di tagliare la testa al nemico e di appenderla sulla soglia di casa: in questo modo ci si appropriava delle sue migliori qualità. Le donne erano le depositarie dei segreti della conoscenza e dei rapporti col mondo dei morti e degli spiriti: niente di strano che fossero proprio loro a eseguire quei riti di magia simpatica che permettevano l’acquisizione della potenza e delle qualità del nemico.

Non fu tanto la religione, quanto il razionalismo militante, che alla fine fece scomparire le fate e le altre creature silvestri. Se la Chiesa si era limitata a mettere in guardia contro spiriti che potevano essere pure di obbedienza satanica, il razionalismo ne negò l’esistenza, come negò quella del Diavolo e delle streghe. A scuola si imparò che erano tutte “superstizioni d’altri tempi”.
La foresta, finalmente liberata dal suo incantesimo, poteva ormai essere sfruttata secondo la tecnologia moderna, che distruggeva l’ambiente. La solcarono strade; rettifili disboscati penetrarono fin nel più fitto degli alberi. Il “popolo degli alberi” perse l’unica risorsa di cui disponeva, il rifugio in cui ritirarsi al di fuori dell’influenza dei “civili” (che erano riusciti a occupare ogni angolo), in cui vagare a proprio piacimento come gli animali selvatici. E perse Dio.

Streghe, eretiche, delinquenti: dove sono andate a finire le antiche femmine ribelli delle Alpi e delle foreste d’Europa? Bruciate dai roghi, naturalmente; fatte a pezzi sui patiboli, in mezzo alla gente di città, curiosa ed eccitata; ridicolizzate dagli intellettuali e dimenticate, soprattutto. Perché dopo l’Inquisizione, che pure fece tanti morti, il ricordo di loro rimase: e le creature mitiche continuarono, per secoli, a parlare attraverso le storie delle vecchie e a popolare le notti senza luna.

Testo estrapolato da: Michela Zucca, “Donne delle foreste e delle montagne: l’eresia delle femmine ribelli”, pubblicato in “Eretici dimenticati. Dal Medioevo alla modernità” (a cura di Corrado Mornese e Gustavo Buratti), DeriveApprodi, Roma 2004.

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