Glossarietto NO TAV
equipaggiamento minimo in vista della ripresa delle ostilità
Edizioni Libera Repubblica di Venaus in esilio
A A sarà düra!
Questo slogan esprime con forza e ironia lo spirito della resistenza valsusina, e promette battaglia. Allo stesso tempo ci esorta, lontano com’è dal trionfalismo dei “vincenti”, a non ignorare le difficoltà, a guardarle negli occhi.
Le glosse che seguono sono un piccolo contributo per aguzzare la vista e armare gli spiriti. Per ripensare il cammino fatto finora e scoprire i sentieri possibili. Per raccogliere quell’equipaggiamento minimo che ci permetta di non restare in braghe di tela alle prime raffiche di vento.
I nostri alleati non li troveremo tra i dirigenti di questo mondo, ma tra i suoi nemici, che se di qualcosa difettano è di una consapevolezza e un’organizzazione adeguate, non certo del numero.
Le nostre forze non sono né poche né di poco conto. Siamo ricchi d’esperienza e di potenzialità incompiute, che han già fatto tremare i potenti e azzittito i buffoni di corte. Questi ultimi abbiamo imparato a riconoscerli dalle scelte e dai progetti scellerati che propagandano, non dal colore cangiante delle casacche, e sappiamo che son tutti contro di noi.
Abbiamo unito le generazioni e risvegliato il loro orgoglio, ridando slancio ai loro cuori. Abbiamo bloccato e costruito, lottato e vissuto.
A sbaraccare il cantiere di Chianocco fummo in ottanta. A sbaraccare quello di Venaus in trentamila.
Il maligno nanerottolo tornato sul trono minaccia ora d’inviarci i suoi lanzichenecchi. Siamo qui. A sarà düra!
B Balmafol
“Canta a morte la mitraglia / giù macigni a rotolon; /
dàgli addosso alla gentaglia / trema tutto il gran vallon”.
Così cantavano, a Balmafol, i partigiani della 42ª brigata “Walter Fontan”. Era l’8 luglio 1944, i fascisti erano appena stati sconfitti, messi in fuga dai massi fatti rotolare dall’alta cima di Balmafol, sopra Bussoleno, e i combattenti già elaboravano la canzone delle proprie gesta. Sessanta uomini, braccati e male in arnese, con l’aiuto dei margari e grazie alla conoscenza del territorio, sbaragliarono un battaglione di soldati equipaggiati di tutte le moderne tecnologie belliche. Potenza del genio montanaro! Ecco perché Balmafol è diventato presto un simbolo, un mito. Così come il ponte del Seghino (là dove non passa il celerino) o la Libera Repubblica di Venaus (che vanta Asterix tra i suoi ospiti illustri), per il movimento NO TAV, sono diventati luoghi simbolici, baluardi di resistenza. Nella memoria delle genti si intrecciano i ricordi, le storie, i miti, soprattutto quando questi – riaccesi dal fuoco delle battaglie – tornano a vivere e a parlare abbandonando i musei e gli scaffali in cui erano stati confinati. La resistenza partigiana rivive, oggi, in quella NO TAV (così come rivivono altri episodi di resistenza umana, da Fra Dolcino e Margherita agli Indiani d’America, con cui i valsusini insorti contro il Progresso non hanno tardato a immedesimarsi). Ma la memoria di Balmafol non si esaurisce nell’evocazione di una bella e potente immagine, diventa suggerimento pratico, indicazione di una tecnica di lotta. I partigiani arroccati a Balmafol erano un piccolo gruppo, costretto a scegliere gli strumenti di battaglia più adeguati alle proprie forze. Sassi quando si è in tanti, macigni quando si è in pochi… La lotta è spesso fatta anche di questo: quando la forza del numero non basta, c’è bisogno dell’audacia dei pochi. La sua legittimità etica non è questione d’aritmetica. Anzi. Non dimentichiamoci che i partigiani, prima del dilagare della retorica resistenziale, erano spesso minoranze isolate. Achtung Banditen! Terroristi.
Ancora oggi, nei movimenti, i sabotaggi (o altre azioni di pochi) s’intrecciano con le pratiche di massa. Come quando, nell’impossibilità di aggirare collettivamente il check-point di Mompantero, ci pensarono i chiodi a quattro punte sulla strada a ostacolare i movimenti dei tecnici e delle truppe d’occupazione. Oppure quando, dopo lo sgombero del presidio di Venaus, una trentina di NO TAV bloccarono l’autostrada con rami e copertoni incendiati, inaugurando una pratica che, soltanto qualche ora dopo, sarebbe diventata di massa in tutta la valle.
C Caos
“Bisogna portare un caos dentro di sé per partorire una stella danzante” (F. Nietzsche). Quello valsusino è un caos propriamente irrappresentabile. Benché esistano NO TAV più o meno noti e autorevoli, non c’è nessun portavoce mediatico che esprima, semplificandola e banalizzandola, l’eterogeneità del movimento. Le ragioni di questa irrappresentabilità sono numerose.
Innanzitutto, l’assenza di gruppi o partiti politici in grado di controllare – attraverso i loro leader, la loro iconografia, il loro gergo, le loro trattative segrete e separate con istituzioni e polizia e, se del caso, attraverso i loro servizi d’ordine – la parola e le pratiche NO TAV. (La decomposizione della politica è giunta a un punto tale che il piacere di esistere e di resistere arriva a vincerla su quello di ordinare e di reclutare.)
In secondo luogo, a fianco di un movimento più organizzato (come quello strutturato nel coordinamento dei comitati), pulsa la capacità di autorganizzazione spontanea della gente, che in più occasioni non ha aspettato, per agire, le consegne di nessuno.
Infine, va aggiunta una sana diffidenza montanara per saltimbanchi e mercanti di notizie.
La vita dei presìdi e la composizione dei cortei (come a suo tempo dei blocchi) sono un fiume in piena che raccoglie le proprie acque da mille rivoli. La creatività popolare (visibile nei cartelli, negli striscioni, negli atteggiamenti, persino negli insulti) non viene né rappresentata né mimata: semplicemente, esiste.
Nonostante un’esperienza di lotta ormai consolidata, il cuore profondo della valle (quello che non partecipa assiduamente ai comitati, ma che nondimeno c’è) ha moti suoi e battiti ancora misteriosi. Il governo intuisce che ne può uscire di tutto: indignazione, petizioni, proclami di non-violenza, fucili da caccia.
D Democrazia
(all’occorrenza partecipata)
Sembra quasi esser diventato lo slogan ufficiale del movimento NO TAV o perlomeno di chi parla a suo nome. “Difendere la democrazia, presidiare la Costituzione…”, si sprecano gli elogi alla Valsusa, presunto esempio di partecipazione, laboratorio di una rinascita della democrazia, finalmente genuina. Eppure a noi sembra proprio che la triste (ma illuminante) parabola del fronte istituzionale del movimento abbia, tutt’al contrario, sancito il pieno fallimento della democrazia partecipata. Anzi, con buona pace di tutte le ideologie di Carta, quest’ultima non è mai esistita: non c’è stato alcun coinvolgimento dei cittadini nelle scelte, solo la rappresentazione mediatica di un dialogo grazie al quale sono state fatte passare decisioni che i signori del TAV e della politica avevano già preso altrove. Ci han preso per il culo, e basta. Neppure il più ingenuo dei democratici può davvero credere che, quando sono in gioco le scelte che contano (infrastrutture strategiche, oltreché miliardarie), si concederà ai cittadini l’ultima parola. È già cara grazia se si consentirà loro di esprimere un’opinione (Vicenza insegna), con la quale poi nettarsi l’ano. Del resto, non si può dar torto a quel promotore del rigassificatore di Livorno quando, irritato dall’opposizione della popolazione locale, affermava: “Se è la gente a decidere, che cosa ci sta a fare il Parlamento?”. Proprio così… in fondo sta qui il problema. La retorica dei diritti democratici che noiosamente ci ha accompagnato mentre, senza tanti paroloni, abbiamo imposto nelle strade la cacciata delle forze di occupazione, ha mostrato la sua inconcludenza. I diritti (di parola, di scelta, di associazione, di dissenso…) ci vengono accordati soltanto alla condizione preliminare di non poterne fare uso. A meno che, appunto, non intervenga la forza a sbloccare la situazione. L’infrangersi delle illusioni può far male, d’accordo, ma giunti a questo punto una domanda s’impone: è il caso di continuare a perder tempo dietro astratte rivendicazioni democratiche o non è più utile affinare e rilanciare la nostra forza materiale? Correremo così il rischio di passare per “non-democratici”? Pazienza, ci sono insulti peggiori.
E Esercito
Quando la televisione non basta più. L’ultimo argomento dello Stato, quello che sorregge tutti gli altri. Nel Belpaese si moltiplicano le resistenze delle popolazioni che rifiutano di rassegnarsi a un futuro di degrado, umiliazioni e malattie. I governi rispondono, rinnovando l’armamentario repressivo sotto il pretesto di un ormai perenne “allarme sicurezza”. Quando gli abitanti di Chiaiano insorgono contro l’ennesima discarica, la legge si aggiorna costruendo su misura nuove fattispecie di reato: l’“ostacolo alla complessiva azione di gestione dei rifiuti” e il “danneggiamento di impianti e strumenti per la gestione dei rifiuti” (DL 90/2008). Con la consapevolezza che le resistenze delle popolazioni saranno sempre più un problema, se non il problema, la “democrazia emergenziale per decreto” sforna leggi ad protestam. Ecco pronti in quattro e quattr’otto gli strumenti legislativi che consentono di schierare le forze armate a difesa dei luoghi di “interesse strategico” (con il dettaglio che d’ora innanzi qualsiasi luogo potrà diventarlo: una discarica come una banca, una fabbrica come un’autostrada… o un cantiere ferroviario). Così la democrazia getta la maschera e, dispiegando l’esercito contro i propri cittadini, notifica che la guerra si combatte dentro e fuori i confini, e che il nemico siamo noi.
Da un lato c’è da preoccuparsi (ancor meglio varrebbe prepararsi), dall’altro non è questo un segnale di debolezza? Chi ci governa sa dell’impopolarità delle sue scelte, al punto che per imporle deve far ricorso alla forza delle armi. Ma le forze reali si vedono in movimento. I sentieri della Valsusa li conosciamo meglio noi…
F Forbici
È un’immagine nota quella della sarta che, l’8 dicembre 2005, estrae dalla borsa le sue lunghe forbici per tagliare la recinzione del cantiere di Venaus.
Che non si possa andare a un appuntamento di lotta decisivo con le mani in mano, armati solo di senno, è un esempio di saggezza pratica. Ma non solo. Intrecciandosi con mille altri episodi, incontri, gesti, dialoghi e scambi di battute, quelle forbici popolano un mondo insieme collettivo e interiore che ci sussurra: il TAV in Valsusa non passerà mai.
G Grappa
“Resistere per esistere” era una scritta che campeggiava su vari cartelli e cartelloni a Venaus. Tra le tante bottiglie di grappa, mai mancate a riscaldare le fredde notti della Libera Repubblica, una suggeriva con la sua etichetta un curioso dialogo a distanza: “Esistere per resistere”.
Nella storia delle lotte è accaduto spesso che le forme organizzative abbiano fatto irruzione sulla scena prima ancora che fossero nate le parole per nominarle.
Qualcosa di simile è accaduto con i presìdi NO TAV. Da strumenti di lotta per impedire i sondaggi, essi sono diventati anche luoghi di incontro, discussione, socialità. Ma a trasformarli nel cuore pulsante del movimento sono stati i momenti di rottura collettiva.
Il presidio di Venaus è diventato un simbolo NO TAV (potremmo definirlo anche un mito, nel senso di racconto collettivo realmente vissuto, di “avvenire immaginato”) quando ha travalicato lo spazio della casetta dove si mangiava e si dormiva per tramutarsi in un vero e proprio villaggio, in una Libera Repubblica il cui spazio era delimitato e allo stesso tempo creato dalle barricate. Da tecnica di guerriglia, la barricata è diventata un mondo sottratto alla sovranità dello Stato, un mondo fuori dell’Italia. L’esperienza che ne è nata è stata quella di fare del blocco un luogo abitabile. Abitare la rottura è stato un paradosso effettivamente vissuto (la lotta che si intreccia con la vita quotidiana, la teoria con l’azione, la felicità come sospensione del tempo storico). Abitare il blocco (“resistere per esistere” / “esistere per resistere”) è una pratica che si sta diffondendo a livello planetario, una pratica che i movimenti si troveranno a dover affinare se è vero che viviamo in un sistema produttivo che merita, ogni giorno di più, di essere bloccato e non conquistato. La “crisi” è ormai il modo di funzionamento di un ordine sociale che produce in serie nocività che non sa gestire. Non si tratta di sacrificarsi per “risolvere la crisi”, ma di farla precipitare. Tirare le pietre prima di dover tirare la cinghia. Bloccare la via per rovesciare il blocco della situazione.
H Harakiri
Squarciarsi il ventre, sotto lo sguardo compiaciuto del nemico, è un supplizio che i movimenti s’infliggono spesso. Gli uomini sono governati dalle opinioni, si legge nei Musicanti di Brema dei fratelli Grimm. Se a dire l’ultima parola sulle lotte e sulle resistenze fosse la forza, la minoranza che dirige il mondo non potrebbe evitare le disfatte né reggersi a lungo. Il fuoco lento su cui cuociamo si alimenta di legna che siamo noi stessi a fornire, complici inconsapevoli dei nostri oppressori, manutengoli del bastone con cui ci colpiscono.
L’harakiri dei movimenti ha un nome ben preciso: delega. L’illusione che qualcuno (partiti, sindacati, guide più o meno illuminate) possa agire al posto nostro è un’illusione funesta.
La presenza di sindaci e fasce tricolori nelle mobilitazioni valsusine ha sicuramente coinvolto i più moderati e contenuto la violenza del governo. Ma quella presenza non si è data gratis: da un lato essa è stata imposta dalla volontà di un’intera valle (“Ci vediamo alle elezioni!” urlò qualcuno quando un sindaco concesse alle truppe di occupazione di avanzare di qualche metro nel cantiere di Venaus…), dall’altro ha permesso, una volta partiti i mazzieri in divisa, i giochi della Politica. Se la folla, nei giorni successivi all’8 dicembre, ha aspettato al casello autostradale della valle i sindaci di ritorno da Roma (lasciandoli passare solo dopo aver verificato coi propri occhi che sui fogli governativi non c’erano le loro firme), il ritorno alla normalità – il più freddo dei freddi mostri – ha trasformato in una chimera la cosiddetta partecipazione popolare alle decisioni istituzionali. Così come la natura ruffiana e camaleontica del sostegno al movimento da parte dei partiti della “sinistra radicale” si è rivelata impietosamente con il dodecalogo imposto da Prodi (sì al TAV, sì agli inceneritori, sì ai rigassificatori e via devastando).
Solo l’azione diretta, senza deleghe né padrini, libererà la forza reale della Valsusa. “Fermare il TAV è possibile.
Fermarlo tocca a noi”. Allora le nostre spade non saranno per i nostri ventri.
I Insurrezione
“L’insurrezione è l’unico momento in cui la parola ‘popolo’ non è una mistificazione, perché indica la potenza degli individui uniti” (Charles Meslet).
Nell’euforia dello slancio valsusino, qualcuno aveva auspicato “un’Italia dei presìdi” da contrapporre a quella dei partiti e dei poteri forti. Sia pure come semplice suggestione, quell’immagine ha il merito di sollevare il problema dei rapporti fra lotte, territori, autonomia.
Una cosa è certa: lo Stato non ha alcuna intenzione di cedere porzioni della sua sovranità alle assemblee popolari quando queste esprimono un grado effettivo di autorganizzazione. L’irruzione dell’autonomia nei territori statali è sempre un atto di forza, una trasgressione, una rottura. Non dimentichiamo che la Libera Repubblica di Venaus (pianeta Terra) è nata sulle barricate. Non solo. Una realtà valligiana liberata dai grandi flussi internazionali di merci, basata su produzioni e scambi più ravvicinati e controllabili, è un’idea che la critica al TAV contiene, sia pure in nuce. Ma i veleni del profitto e l’espansione del cemento ci stanno levando ogni giorno di più il terreno da sotto i piedi, per sradicarci dal possibile.
Prendersi collettivamente la capacità di decidere, fare dei luoghi di lotta dei luoghi abitabili, innalzare il piacere di vivere, senza rappresentanti, sono tracce che i potenti vorrebbero cancellare dalla geografia del territorio e dell’anima, grumi di extraterritorialità umana.
L’insurrezione è un NO che cresce in estensione e in intensità, nei paesi come nelle coscienze, un NO che permette ai nostri innumerevoli SÌ di germogliare. È l’incontro della leggerezza con il rigore.
L Lestofanti
Non facciamoci illusioni. Questi tre anni, il partito del TAV (che è il partito dello Stato) non li ha né dormiti né giuocati. Conferenza dei Sindaci, Tavolo Politico, Osservatorio, Cabine di regia, Comitati di pilotaggio, Centri di governance unitaria, F.A.R.E. ecc. hanno ottenuto più risultati delle manganellate ordinate dal precedente governo Berlusconi. Il meccanismo con cui sono state cooptate quasi tutte le forze istituzionali locali è stato ben oliato: martellante campagna mediatica, compravendita dei consensi, manovre politiche nascoste dietro tavoli di presunto confronto tecnico, conferenze a porte chiuse difese dalla forza pubblica, scavalcamento di fatto dei consigli comunali, “democrazia a inviti” ecc. dimostrano non già il tradimento evitabile di sindaci e amministratori, bensì la consueta forza corruttrice della Politica. Niente di nuovo, cambia solo il frasario.
Le Grandi Opere fatte sopra la testa delle popolazioni non rappresentano un’eccezione, bensì la norma in un Paese messo a sacco fin dagli anni del “boom economico”, quando l’ideologia del benessere e dello sviluppo si riversava in immani colate di calcestruzzo, dighe a orologeria, arditi (invero orripilanti) viadotti, poli petrolchimici dispensatori di morte eccetera.
Dietro la foglia di fico del dialogo e della democrazia partecipata, oggi si lavora per screditare e isolare l’intransigenza NO TAV, riservando al campo istituzionale il monopolio del discorso e della decisione. L’anomalia valsusina andava normalizzata: i governanti decidono, i governati obbediscono.
Se aleggia la paura che la defezione del campo istituzionale renda il movimento NO TAV più diviso e più debole, il seguito dimostrerà che la lotta prima o poi chiarifica sempre gl’intenti, le posizioni, i metodi. Non ingannarsi sui rapporti di forza reali è necessario. Quello istituzionale resta un teatro delle ombre fino a che non arrivano le trivelle e le truppe di occupazione. Il TAV non si fa con le chiacchiere (e nemmeno con i fondi stanziati). Di qui dovranno passare.
Berlusconi ha già minacciato, com’è noto, di usare la forza. Sa bene che i cosiddetti mediatori governativi e i rappresentanti della Valle (i Virano e i Ferrentino) non possono mediare sine die né rappresentano un granché.
La libertà, l’autorganizzazione, l’orgoglio della resistenza emanano un profumo che non si dimentica in fretta. Non mettere in gioco il proprio futuro se non si è disposti a giocare con tutte le proprie possibilità, diceva un certo adagio. E questo è vero su entrambi i lati della barricata.
M Motosega
Seghino, 31 ottobre 2005, prime luci del mattino. Una “vedetta” NO TAV avverte che dalla caserma di Susa son partiti i blindati: il rumore di una motosega squarcia il silenzio dell’alba. Un albero viene abbattuto per esser messo in mezzo alla strada. Ne nasce una discussione non proprio rilassata (c’è il tempo anche per questo: i blindati in arrivo erano un falso allarme). La motosega torna a tacere. L’esercito dei caschi blu sta salendo (stavolta per davvero), il centinaio di NO TAV improvvisa qualche barricata con sassi e un guardrail, si serra davanti alle divise e poi… arriva la gente, a decine, a centinaia, famiglie, giovani, anziani. Le truppe non passano.
Venaus, notte tra il 29 e il 30 novembre 2005. Le prime barricate cominciano a innalzarsi. Non mancano accese discussioni. Fino al 1º dicembre, quando si assiste al tentativo, da parte delle forze dell’ordine, di occupare militarmente la zona dei cantieri (a partire dai campi a sud del presidio – l’Ultima spiaggia, nella toponomastica NO TAV). Ora la vigoria dei corpi sembra non bastare. Irrompe di nuovo il rumore delle motoseghe: servono tronchi, e tanti. Questa volta si alza potente l’applauso dei presenti, che si affrettano ad accatastare la legna.
Valsusa, 6 dicembre 2005. Dopo lo sgombero violento del presidio di Venaus, le motoseghe sono una presenza costante – tronchi tagliati ovunque –, sull’autostrada come sulle statali invase da migliaia di studenti e lavoratori in sciopero.
Nelle rivolte popolari, la coscienza pratica, che si alimenta nel comune sentire di essere nel giusto, sta sempre un passo avanti rispetto a quella teorica. Si discute ancora di legalità e illegalità quando si stan costruendo le prime barricate e un buon numero di reati sono già stati commessi. Quello che prima sembrava “illegittimo” o anche solo impossibile, diventa, nel vivo della lotta, necessario, spontaneo, desiderabile, gioioso.
Dietro una motosega, una piccola storia degli affetti.
N No mafia
In quasi tutt’Italia la scritta “NO MAFIA” esprimerebbe semplicemente uno di quei luoghi comuni che metton tutti d’accordo. Cos’è la mafia e soprattutto dov’è? Ovunque, cioè da nessuna parte. Impossibile dare all’ingiustizia nome, cognome e indirizzo, impossibile agire. La scritta “NO MAFIA” che si staglia dal monte Musinè a fianco di quella “NO TAV”, invece, ha suscitato reazioni isteriche di sdegno e di condanna. Se la “mafia” comincia a essere qualcosa di concreto (per esempio parte integrante del sistema-TAV) e, soprattutto, se chi lo afferma è un movimento non di opinione ma di lotta, allora l’unanimismo legalitario mostra le sue crepe. Gli affari sono affari. Il caso dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, prima simbolo della lotta alla corruzione e poi uomo politico nonché accanito sostenitore del TAV e del suo sistema mafioso, dimostra la natura falsa e retorica dei proclami antimafia.
O Osservatorio
“Temo i Greci anche quando portano doni”, questa è la frase che la tradizione attribuisce a Laocoonte circa il cavallo di legno offerto dagli invasori alla città assediata. I Troiani, però, non credettero al vecchio sacerdote, come non avevano prestato fede al monito di Cassandra, e mal gliene incolse.
Certo non sono mancate in Valsusa le Cassandre che hanno messo in guardia circa la natura sinistra dell’Osservatorio tecnico nato nel 2006. Né si può dire che lo Stato abbia giocato a carte proprio coperte. Nominare alla presidenza di un Osservatorio sedicente super partes l’architetto Mario Virano, già commissario governativo per la Torino-Lione, non offriva quella che si dice un’immagine d’imparzialità. Ai signori del cemento e del tondino bastava poter dichiarare che la Valsusa era disposta a dialogare. Tutti gli studi tecnici pubblicati dall’Osservatorio stesso dimostrano che la nuova infrastruttura sarebbe inutile anche dal punto di vista trasportistico? Non conta. L’importante è far credere che c’è collaborazione tra il governo e l’opposizione ragionevole, per poi giustificare i manganelli contro quella irragionevole, rappresentata da “un pugno di irriducibili” sordi – loro! – all’oggettività degli argomenti scientifici.
Questo moderno cavallo di Troia, accolto con un sospiro di sollievo da Ferrentino e colleghi, non avrebbe potuto varcare le mura né durare senza la costante e interessata copertura mediatica. Altrove il gioco aveva già funzionato bene (per restare al TAV, pensiamo al Mugello). Ma l’autonomia dei movimenti rispetto ai partiti e alle loro reti clientelari è una brutta bestia da domare.
Il tentativo di guadagnare tempo affidando agli amministratori locali il compito di far valere le ragioni del NO di fronte al governo si è rivelato perdente. Ma la Valsusa che resiste è rimasta sulle proprie posizioni.
Il TAV passa o non passa. Non c’è mediazione possibile.
P Parastinchi
1º dicembre 2005. Non potendo oltrepassare il blocco degli armati di Stato al bivio dei Passeggeri, un gruppetto di NO TAV cerca di raggiungere Venaus passando da Giaglione. Un valsusino li vede e li carica a bordo del suo fuoristrada. Proprio mentre si stanno salutando all’imbocco di un sentiero, l’autista riceve una telefonata della moglie dal presidio: “La polizia sta per caricare!”. Dopo una sequela assai poco democratica d’improperi all’indirizzo delle forze dell’ordine, quel signore piuttosto distinto passa a uno dei ragazzi appena incontrati il costoso casco integrale che aveva in auto, tenendo per sé un paio di parastinchi che indossa in fretta e furia. Rabbia, fiducia e prontezza: tre fidi alleati di cui avremo ancora bisogno.
Q Quadruplicamento
La nuova linea ferroviaria Torino-Lione si è sempre chiamata TAV. Vista la cattiva fama in cui era caduta la parola, gli allegri linguisti salariati dallo Stato, un bel giorno, ci han detto che non avevamo capito bene, che la parola giusta era TAC. Scarsa fortuna. I NO TAV sono rimasti NO TAV. Grazie alla “lingua creativa” (corrispettivo della “finanza creativa”, come gli economisti chiamano la speculazione più selvaggia), Virano & C., a un certo punto, hanno cominciato a parlare di quadruplicamento della linea (cosa vuoi che sia aggiungere due binari… ad alta velocità?). La tendenza a un quadruplicamento delle merci in transito per la Valsusa (da assecondare con nuove infrastrutture) è stata smentita da tutti gli studi tecnici. Bene: altro giro, altro regalo. Ora tocca di nuovo ai passeggeri. La necessità diventa quella di un Sistema Ferroviario Metropolitano (SFM: se invento la sigla esisterà anche la cosa, o no?) per collegare Torino e Avigliana. Un treno ogni mezz’ora, per incominciare.
Che i valsusini possano preferire una valle non devastata dove poter vivere senza andare su e giù da Torino è l’unico “tracciato” non contemplato. Qualche Grande Opera bisogna pur costruirla. L’importante, lo abbiamo capito, è F.A.R.E.
R Riposa in pace
“Qui riposa in pace la coscienza di chi diceva: Tanto alla fine lo faranno”. Questa frase, scritta nel 2005 su una delle croci piantate simbolicamente nei prati di Venaus, indica che ancora poco prima del Seghino la certezza di poter fermare il TAV non era affatto diffusa, che quel cavallo di Frisia che è la rassegnazione presidiava non poche zone deboli del decidere e dell’immaginare. Gli argomenti contro un’opera inutile e devastante, per quanto ben fondati, da soli non bastano. Pensiamo a quell’ostinato illuminista che, nei campi innevati di Venaus, elencava le 100 ragioni del NO TAV agli agenti in assetto antisommossa al di là del fossato. Per riprenderci i cantieri, la settimana dopo, c’è voluta anche la forza. Ed è proprio quella forza che ha travalicato i confini della valle, diventando sinonimo di riscossa per decine di altre lotte, fonte d’ispirazione, sommario d’arme e di leggerezza. La testardaggine di “quattro montagnini” (come disse Lunardi) avrà conseguenze non solo nei salotti buoni, ma anche là dove si preparano altre nocività e si organizzano altre resistenze. Che la posta in gioco in Valsusa abbia una portata generale è chiaro a noi come ai signori del TAV. Di fronte al vento gelido della minaccia e della calunnia, come nel caldo della rivolta, la valle non sarà sola.
N.B. La Riposa è anche il luogo dov’è stato redatto il documento con cui i sindaci, dopo l’incontro di Pra Catinat, volevano far inghiottire ai valsusini la pillola del F.A.R.E. Le istituzioni non hanno capito però che solo dai morti si può pretendere obbedienza (“obbediente come un cadavere”, scriveva l’inquisitore Loyola). Dai vivi no. I vivi si battono.
S Sol Levante
Nella Libera Repubblica di Venaus persino le barricate avevano un nome. Quella orientale si chiamava “barricata del Sol Levante”. Sollevante è la sensazione di comunanza che si crea mangiando, dormendo e lottando assieme. Sollevante è la sensazione di abitare un luogo che sfugge alla politica, alla geografia e a tutte le mappe del Consentito. Quasi una piega in cui trovano rifugio i sopravvissuti alla Storia (montanari ostili al Progresso e alle sue ruspe, valsusini d’adozione, sovversivi d’ogni età). Quasi una breccia che apre a una vita più dignitosa e più intensa.
Il Sol Levante non è solo alle nostre spalle, ma anche davanti a noi, come realizzazione dell’incompiuto, come promessa da mantenere: “Soldati e trivelle fora d’le bale!”.
T The
Fino alla sera del 5 dicembre 2005, alcune donne del presidio continuano a offrire the caldo ai poliziotti e ai carabinieri che circondano la Libera Repubblica di Venaus. “Non si offre il the a chi è pagato per picchiarci”, s’indigna qualcuno che le truppe di occupazione le ha già viste all’opera varie volte. “In fondo sono dei ragazzi, fanno solo il loro lavoro”, ribatte qualcun altro che con la Celere non si è mai scontrato. “Un the, in Valsusa, non lo si nega a nessuno”. Buona creanza montanara. Il 6 dicembre, dopo le manganellate, i pugni e i calci democraticamente distribuiti ai ragazzi come agli anziani che dormivano al presidio, nessuno offriva più the agli uomini in divisa. Nel giro di mezza giornata, un corso accelerato di dottrina dello Stato.
U Uccellacci del malaugurio
I giornalisti, diceva Karl Kraus, fanno più danni della sifilide. Se proprio non si riesce a evitarli, bisogna usare sempre la massima cautela.
Uno dei punti di forza (e delle fortune) del movimento NO TAV risiede nel fatto che la sovraesposizione mediatica è arrivata solo dopo gli scontri sul ponte del Seghino. Il sapere, i rapporti, i presìdi sono cresciuti al riparo da ribalte e riflettori (per lo meno di quelli nazionali). Leader e pose, interviste e scoop non hanno occupato la scena. La vita non ha ceduto armi e bagagli alla rappresentazione.
Le lotte precocemente esposte allo schiacciasassi dello spettacolo tendono a riprodurre al proprio interno i giochi di potere. Il cuore di un movimento non va confuso con l’immagine che ne dànno i mass media. La fiducia nei nostri mezzi autonomi, quella fiducia che ci infondiamo reciprocamente con la parola e con i fatti, vale cento volte l’attenzione che può riservarci un qualunque telegiornale.
Gli allarmi giornalistici (sulle “infiltrazioni terroristiche”, sui pericoli della violenza) non attecchiscono sempre allo stesso modo. Più forti, diretti e intensi sono i rapporti umani, meno peso hanno le campagne di criminalizzazione. La ragione non è misteriosa: il malaugurio mediatico ha bisogno, per diffondersi, del deserto sociale, della “saharizzazione degli spiriti”, di un “formicaio di uomini soli”.
L’esempio della Valsusa è emblematico. Pur non essendo stato paralizzante, lo scientifico lavorìo contro i “violenti”, i “terroristi”, gli anarchici (dall’ignobile linciaggio mediatico di Sole, Baleno e Silvano agli articoli del 2005) aveva creato una certa diffidenza, alimentata ad arte da alcuni corvi per ragioni politiche. La lotta fianco a fianco ha trasformato, giorno dopo giorno, la diffidenza in curiosità e poi in complicità.
I tradimenti e i tentativi di divisione, d’altronde, sono arrivati dal campo della moderazione (istituzionale), non da quello dell’estremismo (anarchico). E questo nessun venditore di paura e di paranoia potrà farcelo scordare. Come Gianfranco Bianco (l’inguardabile giornalista del TG3) non scorderà la sua fuga dal presidio di Borgone rincorso dai giovani e dai pensionati combattenti…
V Violenza
Quando ci vuole, ci vuole. L’etichetta di “non-violento” appiccicata sulla groppa dell’indefinibile movimento valsusino è un marchio quantomeno riduttivo. Finora, il carattere tendenzialmente tranquillo delle mobilitazioni NO TAV ha permesso ad alcune minoranze politicizzate di spacciare la loro ideologia pacifista come se fosse quella di tutti. Ma non è forse stata la forza materiale del movimento a concedergli il lusso di essere, tutto sommato, pacifico? Non è forse stata l’implicita minaccia che avremmo reagito con ben altro piglio a consentirci di evitarlo? Un esempio su tutti: al Seghino, nell’ottobre 2005, le truppe in divisa hanno capito che si sarebbero fatte male. Le pietre erano pronte a rotolare (Balmafol insegna) e in basso c’erano loro, su di un terreno ostile. Chi definisce questo un esempio di non-violenza non sta parlando pulito. Nessuno è fanatico della violenza, così, a gusto. Ma chi l’ha detto che avremo voglia di farci gandhianamente bastonare per far spazio ai cantieri del TAV? Mutevole è l’umore delle genti, soprattutto quando la posta in gioco non è una qualche opinione, ma il futuro proprio e quello dei propri figli. Violenza o non-violenza è un falso problema buono solo a crear malumori e distinguo a uso del nemico.
Imprevedibili e inclassificabili, leggeri e irremovibili, né buoni né cattivi, ecco la nostra ricchezza, la nostra forza. Abbiamo fatto paura allo Stato. È ora di assumercelo e rivendicarlo con orgoglio.
Z Zavorra
Per andare in battaglia bisogna essere leggeri (nel passo e nella mente, ma non nell’intelligenza di sé e del nemico). Bisogna liberarsi della zavorra. I falsi amici e i pretesi rappresentanti della lotta NO TAV hanno fatto più danni (con i loro Osservatori, le loro Conferenze, le loro Cabine, il loro F.A.R.E.) di chi ha mandato le truppe in divisa e ferraglia. La zavorra delle varie ideologie elaborate sulla Valsusa non è stata di minor peso. Ma il movimento ha tutte le forze qualitative e quantitative per fuggire le trappole, i consigli interessati, gli elogi obliqui.
Questo glossarietto vuol essere un agile strumento di autocomprensione del percorso già fatto e di messa a fuoco delle prospettive, per giocare d’anticipo sulle ostilità che ci attendono. Un bagaglio a mano, contenente lo stretto indispensabile, per tornare leggeri a quel luogo in cui le differenze hanno sempre fatto la differenza: la barricata.
Alcuni della barricata del Sol Levante
dicembre 2008