Bibliografia

BIBLIOGRAFIA (parziale) sulla vicenda di Dolcino, Margherita e di Segalello e dei Fratelli Apostolici
 
 
Raniero Orioli (a cura di), Fra Dolcino. Nascita, vita e morte di un'eresia medievale, Jaca Book, Milano 2004.
 
Raniero Orioli, Venit perfidus heresiarca, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1988.

 
Elena Rotelli, Fra Dolcino e gli apostolici nella storia e nella tradizione, Claudiana, Torino 1979.
 
Corrado Mornese e Gustavo Buratti (a cura di), Fra Dolcino e gli Apostolici tra eresia, rivolta e roghi, DeriveApprodi, Roma 2000.
 
Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara, DeriveApprodi, Roma 2002.

Gustavo Buratti, L’anarchia cristiana di Fra Dolcino, Leone e Griffa, Biella 2002.

Aa.Vv. (a cura del Centro Studi Dolciniani), Dolcino e il lungo cammino dei Fratelli Apostolici, Millenia, Novara 1996.

“Rivista Dolciniana”, periodico semestrale a cura del Centro Studi Dolcinani (gli ultimi due numeri, 22 e 23, sono editi da DeriveApprodi, Roma 2002-2003).
 
Su Internet:
Sito del Centro Studi Dolciniani: http://fradolcino.interfree.it/

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Breve storia della “guerra dei contadini”

La guerra dei contadini in Germania (1524-1526)
Thomas Muntzer, Michael Gaismair…

Breve storia della guerra dei contadini.

Nella landa tedesca di fine Quattrocento e inizio Cinquecento imperversavano fame e miseria, inquietudine e disagio in larghi strati della popolazione, dai quali scaturivano periodiche ribellioni sociali, tentativi di congiure popolari, volontà di rivolta e spirito sedizioso, soprattutto tra la popolazione rurale.
Quando nel 1517 Martin Lutero pubblicò le sue tesi contro la vendita delle indulgenze, diede voce, con solidi argomenti teologici, non soltanto al disagio etico-religioso dei cristiani di lingua tedesca, ma anche alla rabbia di larghi strati della popolazione che si sentiva oppressa politicamente e sfruttata economicamente, canalizzando le forme più diverse di inquietudine contro la Chiesa di Roma. Così facendo, Lutero diede un possente contributo alla nascita di un movimento di protesta popolare e nazionale che nel giro di poco meno di quattro anni, dall’affissione delle tesi contro le indulgenze (1517) alla Dieta Imperiale di Worms (1521), portò al più grande scisma della Chiesa cristiana nell’età moderna. Tutto ciò senza che il monaco di Eisenach avesse, almeno inizialmente, una precisa idea di tutte le conseguenze socio-politiche che sarebbero potute derivare dalla sua polemica su di un aspetto, in fondo alquanto marginale, della devozione religiosa.
In quegli stessi anni il poeta Ulrich von Hutten non si fermò ai proclami umanisti e ai versi visionari annuncianti aurore e rinascimenti, ma ricorse anche alla spada al fine d’imporre il suo progetto socio-politico di riforma dell’Impero, la cui realizzazione avrebbe fatto recuperare al ceto dei cavalieri nobili, al quale egli apparteneva, quel posto nella società che esso aveva irrimediabilmente perduto in un’epoca in cui le armi da fuoco lo avevano reso superfluo.
Non soltanto monaci e sacerdoti pervasi da un forte affiato etico-religioso, non soltanto umanisti innovatori e cavalieri in cerca di rivalsa sociale provarono la via della rivolta e della ribellione. Lo fecero anche i contadini che nella Germania del primo Cinquecento rappresentavano oltre i due terzi dell’intera popolazione, consistente in circa undici milioni di persone su suolo tedesco.
Già nel corso del tardo Medio Evo si erano registrate forme di ribellione contadina in diverse regioni tedesche. Esse erano state però quasi sempre mosse da rivendicazioni locali e particolaristiche, senza avere alle spalle un progetto generale e una strategia differenziata per raggiungere lo scopo prefissato. Dalla fine del Quattrocento in poi le rivolte contadine si erano andate via via intensificando fino ad arrivare all’inizio del Cinquecento alla formazione di veri e propri gruppi eversivi e all’organizzazione di congiure popolari contro il potere dei signori feudali.
 
Le regioni maggiormente interessate a queste forme di protesta e rivolta sociale furono all’inizio del Cinquecento quelle meridionali tedesche confinanti con la Svizzera, da tempo ormai ribellatasi al potere centrale e riunitasi in confederazione di cantoni liberi e indipendenti, destinata a fare da modello e punto di riferimento politico-istituzionale per i contadini tedeschi in rivolta. Oltre al Baden e all’Alsazia si registrarono rivolte nella Renania, nella Svezia, nella Franconia e in Austria. In generale tutte queste rivolte contadine scoppiarono come reazione ai tentativi dei diversi signori feudali di aumentare e ampliare i propri privilegi giuridici e socio-economici.
Il fatto nuovo nelle prime forme di ribellione contadina del Cinquecento è costituito dal tentativo, intrapreso per la prima volta nella storia tedesca moderna a livello popolare, di andare oltre i particolarismi locali. Le leghe contadine dette del Bundschuh, dal tipico scarpone a legacci proprio dei contadini tedeschi e con l’intenzione che quei legacci siano segno di lega e alleanza contadina, aspirano già a una diffusione sovraregionale. Di rilievo è questa volta anche il fatto che sotto la bandiera del Bundschuh si raccolgano non soltanto contadini e popolazione rurale in genere, ma anche gli abitanti dei piccoli centri cittadini, il che dà alle richieste del Bundschuh carattere di protesta generale di strati sempre più ampi della popolazione tedesca, sui quali pesano gravami feudali più numerosi e sempre più differenziati. La legittimazione della congiura e della rivolta all’autorità, inoltre, non è più data soltanto dalla richiesta del rispetto di una serie di consuetudini locali favorevoli ai contadini e improvvisamente ignorate dai signori feudali, ma già, seppure in forma molto generica, anche dal Vangelo e dall’idea di un «bene comune» da costruire e da difendere.
Le idee radicali del Bundschuh tuttavia non sembrano inizialmente aver incontrato un consenso popolare tale da arrivare a una vera insurrezione. La situazione cambia radicalmente nel giugno del 1524 scoppiano senza un piano prestabilito e senza apparenti rapporti di alleanza, una serie innumerevole di rivolte contadine su suolo tedesco, soprattutto nelle regioni sudoccidentali, poi nella Germania centrale (Renania, Franconia e Turingia) e nelle regioni alpine del Tirolo. In tali rivolte si riscontra continuamente l’influenza della predicazione protestante, la quale negli anni in questione aveva assunto una differenziazione di posizioni che andava dal campo luterano ufficiale fino alle frange più estremistiche e rivoluzionarie, culminando dieci anni dopo nell’esperimento anabattista della città di Mùnster in Vestfalia.
Tutte le rivolte contadine degli anni 1524-1526 divennero una «guerra» in piena regola, la «guerra dei contadini tedeschi» che vide eserciti regolari in campo, battaglie e sconfitte da ambo i lati, e causò la morte di circa centomila contadini.
Come già in epoche precedenti, anche questa volta le cause immediate dello scoppio della «rivoluzione» dei contadini tedeschi erano state provocate da nuove richieste dei signori feudali, che i contadini ritenevano palesemente ingiuste. A tali richieste (nuovi gravami e divieti, disconoscimento di antiche consuetudini) i contadini risposero dapprima con articoli, richieste, lettere e preghiere rivolte all’autorità, allo scopo di superare pacificamente il contrasto insorto tra le parti, poi, soltanto dopo che tutti i tentativi di accordo pacifico erano falliti, con la rivolta, anche violenta, a quel sopruso (v. Articoli dei contadini della Foresta Nera). La disponibilità alla discussione e al compromesso, dimostrata in ogni occasione dai contadini e attestata ampiamente nei testi che ci sono stati tramandati, fu frustrata soprattutto dalla rigidezza dell’autorità, con la conseguenza che i contadini furono costretti ad assumere posizioni sempre più radicali ed estreme, disperando di poter condurre con profitto un dialogo con i signori feudali. Essi si resero però anche conto che le rivolte scoppiate su quasi tutto il territorio nazionale stavano a indicare che essi non erano più piccoli gruppi di rivoltosi, ma un movimento nazionale capace di elaborare un progetto comune e di imporlo all’autorità.
A differenza delle regioni sud-occidentali della Germania, nelle quali prevaleva fin dall’inizio un tipo di rivendicazione socio-economica, sostenuta dalla legittimazione evangelica, le rivolte contadine che scoppiarono in Franconia e Turingia furono nel segno della predicazione riformata, anche se con diverse accentuazioni e sfumature. In Turingia i contadini trovarono alleati nei minatori e misero in discussione la decima, pretendendo infine addirittura, sotto l’influenza della predicazione di Thomas Miintzer, un controllo teologico-politico sull’autorità ovvero progettando una lega cristiana di eletti che governasse teologicamente anche la sfera politica e mondana. Una «Lega cristiana» s’incontra però anche in Algovia, in una regione sud-occidentale molto lontana dalla Turingia centro-orientale. Qui, in Algovia, verranno elaborati nei mesi di febbraio/marzo del 1525 i famosi «12 articoli» dei contadini tedeschi, il più noto e diffuso tra i documenti stilati dai contadini. Nei 12 articoli vengono riprese e rielaborate tutte le singole richieste avanzate dai contadini della Germania meridionale, legittimandole infine, nella stesura unificante di dodici articoli soltanto, con i passi della Bibbia, i cui rinvii venivano riportati ai margini del foglio e resi così più efficaci concettualmente oltre che otticamente. Questi articoli furono subito riconosciuti e fatti propri anche in altre regioni tedesche, furono tradotti e diffusi immediatamente in tutta la Germania e persino all’estero, proprio perché erano riusciti a superare i particolarismi locali, proponendo un programma universale di richieste socio-economiche, fondato per di più sul Vangelo.
Dal marzo del 1525 il movimento contadino si sviluppa velocissimamente, non soltanto geograficamente, ma anche socialmente. Ai contadini in rivolta si aggregano sia le città sia la piccola nobiltà, coinvolte in una prospettiva di cambiamento venata di millenarismo cristiano e di aspettative evangeliche, unificate nella proposta di creazione di un ordine cristiano nuovo e più giusto. Mentre da un lato si diffondevano gli assalti a conventi e castelli, ai quali i contadini dovevano versare decime e censi, dall’altro si organizzava la reazione dei principi tedeschi, intenzionati a stroncare presto e definitivamente, con le armi, il problema costituito dai contadini in rivolta. Lutero del resto, nel suo scritto contro i contadini, aveva fornito la giustificazione teologica per lo sterminio della plebaglia che aveva osato impugnare le armi e ribellarsi all’autorità: «Essi hanno provocato ribellione, hanno rapinato e saccheggiato con grande scelleratezza conventi e castelli che non appartenevano loro, meritandosi così senza alcun dubbio la morte del corpo e dell’anima, perché banditi di strada e assassini. (…) Perciò chiunque può, deve, in questo caso, ammazzare, strozzare, trafiggere, in pubblico e in segreto, e, facendolo, pensare che non c’è niente di più velenoso, pericoloso e diabolico di un ribelle, proprio come se uccidesse un cane rabbioso».
Costretti a difendersi militarmente i contadini si organizzarono in schiere e si armarono alla meglio. Ma di fronte agli eserciti mercenari arruolati dalla lega Sveva, le schiere contadine non riuscirono quasi mai a far fronte comune in modo efficace, sicché, dopo alcuni successi iniziali, furono ripetutamente sconfitte nella primavera del 1525. Il 13 maggio 1525 le schiere contadine furono sconfitte e massacrate a Bòblingen. I contadini della Turingia furono sconfitti il 15 maggio a Frankenhausen, il loro profeta Thomas Müntzer fu fatto prigioniero, torturato ripetutamente e subito giustiziato.
Verso la fine del 1525 tutti i focolai di ribellione su suolo tedesco erano stati soffocati. Soltanto nel Tirolo, regione periferica e alquanto atipica nel panorama dell’Impero germanico, i contadini in rivolta resistettero fino al 1526, conoscendo significativi successi militari sotto la guida di Michael Gaismair (*)
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Caratteri e istanze della rivolta contadina.

Il movimento contadino sviluppa due tipi di argomentazione: una religiosa, l’altra socio-economica. Con la diffusione a livello nazionale della Riforma luterana, grosso modo dal 1523 in poi, i due diversi tipi di discorso tendono sempre più a unificarsi e a sostenersi reciprocamente. Ciò risulta evidente da un lato nella formulazione dei 12 articoli, con tutti i numerosi ed espliciti riferimenti biblici, dall’altro nella teologia di Thomas Müntzer, che trova ad Allstedt (1523-24) la sua prima formulazione politica definitiva a contatto con i contadini poveri e i minatori sfruttati della regione. L’unificazione delle richieste economiche e la relativa fondazione teologica intensificano e radicalizzano il movimento contadino che acquista coscienza delle proprie possibilità. Quando i contadini di Memmingen nel marzo del 1525 compilano i loro articoli tengono presente le richieste di tutti i contadini e riescono a elaborare, con solo 12 articoli ben formulati, un programma comune minimo. Sulla base di quanto esposto in questi articoli e da quanto si deduce dalla loro diffusione e ricezione in tutta la Germania, si possono individuare i diversi campi d’azione e le strategie che i contadini intendevano sviluppare per raggiungere gli obiettivi prefissati.
Nell’economia chiedevano l’abolizione della piccola decima e la limitazione della grande decima; poi la revisione dei diversi tributi dovuti al signore feudale detentore del potere sulla terra, dei tributi dovuti al principe territoriale, dei servaggi. Nelle questioni religiose emergeva la richiesta di una libera scelta del parroco da parte della comunità, predicazione semplice e chiara del Vangelo, abolizione dei conventi. In ambito politico-istituzionale i contadini facevano richiesta di abolizione della servitù della gleba e riaffermavano il principio della proprietà comunitaria di acque, boschi e pascoli. A livello giuridico si chiedeva la limitazione del diritto romano, laddove entrava in contraddizione con consuetudini antiche favorevoli ai contadini e a forme acquisite di autogoverno comunitario; poi l’uguaglianza giuridica di tutti i sudditi di fronte alla legge e il mantenimento delle forme di autodisciplina giuridica per i piccoli delitti.
Attraverso il processo di universalizzazione delle richieste non viene messo più in discussione soltanto un singolo errore o una degenerazione occasionale nel sistema, bensì l’intera costruzione socio-economica della Germania di inizio Cinquecento. Ancora più evidente e radicale si mostra a tendenza a mettere in discussione tutto il sistema durante le rivolte contadine nel Tirolo.
Questo processo di critica sempre più radicale al sistema feudale compie il salto qualitativo allorché i contadini sviluppano e approfondiscono la legittimazione delle loro richieste non più soltanto sulle tradizioni locali e su consuetudini particolari, bensì anche sulla parola di Dio, così come veniva tramandata dalla Scrittura. In questo modo i contadini tedeschi si fanno interpreti non più soltanto dei loro diritti, di quelli propri del loro ceto, ma anche di quelli che sono propri di tutta la società cristiana, intendendosi con ciò interpreti autorizzati ed esecutori del Verbo e della volontà di Dio, chiamati come classe sociale ad assolvere un compito storico-universale in una visione escatologica della storia.
Di questo passaggio decisivo i contadini, come risulta da una lettura attenta dei testi, sono estremamente coscienti. Ciò risulta non solo dalla definizione di «cristiano», «fraterno» per le loro leghe, associazioni e progetti di rinnovamento comunitario, ma anche dalle relazioni che si stabilirono tra i contadini e tra i diversi gruppi regionali, e soprattutto dalla continua, programmatica asserzione, secondo la quale bisognerebbe innanzitutto perseguire «il bene comune» e, per converso, imporsi i divieti necessari. È il caso dei 12 articoli, in cui si riconosce a tutti i contadini il diritto di raccolta della legna da ardere, ma sotto il controllo della comunità, affinché lo sfruttamento egoistico della natura non porti alla morte della stessa. E lo stesso si trova poi in forma sistematica anche nell’Ordinamento di Michael Gaismair: bonifica e sfruttamento oculato e controllato del territorio, bene comune in armonia con i bisogni individuali.

Inglobando nella loro visione di rinnovamento della società gli interessi e le aspettative di tutti i sudditi, i contadini si videro costretti, dopo il rifiuto di Lutero, ad approfondire la riflessione generale sul potere, sulla sua natura e sul rapporto che lega il suddito all’autorità, sul diritto o meno del suddito di subire il governo tirannico, ancorché di uno che si dichiara cristiano. Inizia così, co1 rifiuto di Lutero, il passaggio dei contadini dalla ricerca di una giustificazione per le loro richieste e rivendicazioni alla teoria teologico-politica della ribellione all’autorità. Gli scritti di Müntzer e lo scritto anonimo A tutti i contadini riunitisi in schiere rappresentano il tentativo più compatto di chiarificazione di tale problematica.
Una serie di successi parziali da parte delle schiere contadine, inizialmente sia a livello militare sia a livello politico, richiesero non solo l’organizzazione di unità più ampie e di alleanze strategiche, ma anche una riflessione sul progetto generale di rinnovamento della società. In questa direzione si muovono soprattutto Florian Ceyer, Wendel Hipler e Friedrich Weigandt, nonché Michael Gaismair. Il tratto comune ai loro scritti è dato dalla sicurezza che tutti mostrano nel voler abolire i poteri intermedi e nel proporre il rafforzamento del principio comunitario, ‘repubblicano’ o ‘comunistico’ a seconda degli accenti. Questo principio comunitario ha origine nell’organizzazione comunitaria della vita dei villaggi e dei piccoli centri rurali del Medio Evo e trova, con l’affermazione della Riforma protestante, una sorta di legittimazione teologica che lo rafforza e lo rende esplicitamente cosciente ai contadini nel momento della ribellione. In questo principio comunitario teologicamente fondato il vero governo giusto è quello che provvede al bene comune, organizzando il lavoro e l’economia in modo tale che siano rivolti non alla produzione del profitto, ma del necessario, secondo il principio di uguaglianza evangelica, che non ammetteva è noto — l’usura e consimili forme speculative. Ai membri di questa comunità era riconosciuta di fatto e per legge uguaglianza giuridica (stessi diritti) e impositiva (stessi tributi), come viene ribadito in tanti documenti dei contadini tedeschi.
Proveniente da esperienze medievali, legittimata durante i primi anni della Riforma, approfondita ulteriormente durante la guerra dei contadini, la «comunità» diventò nei progetti dei contadini il nucleo della futura organizzazione sociale. Nella costruzione di questo modello egalitario e comunitario i contadini tedeschi si trovarono di fronte signori feudali, ecclesiastici e mondani, arroccati nella difesa dei propri privilegi e, alla fine, si scontrarono violentemente
con loro.
Inferociti assaltarono e distrussero i conventi e i castelli degli odiati signori, decisi ad abbattere i luoghi di quel potere che, in nome di Dio, creava la disuguaglianza tra i cristiani.
Essi praticarono quel che poco dopo Michael Gaismair formalizzò nel suo Ordinamento, in un passaggio di strabiliante attualità: «Tutte le mura cittadine, i castelli e le fortificazioni che si trovano nella regione devono essere abbattute e non devono esserci più in futuro delle città, bensì soltanto villaggi, affinché non esistano più differenze tra gli uomini…».

 


(*) Michael Gaismair (1490-1532) fu il condottiero riconosciuto della guerra di guerriglia condotta dai contadini in Tirolo. Brillante capo militare, secondo Engels il più geniale della guerra dei contadini, fu anche un eccezionale cospiratore in grado di mettere in seria difficoltà l’imperatore di Vienna, tanto da venire inseguito e poi ucciso dai sicari degli asburgo nel 1532 a Padova. Michael Gaismair fu anche un pensatore politico di rango: nel suo Ordinamento regionale del Tirolo, scritto nel 1526 in una località delle Alpi svizzere dove era rifugiato, si progetta la liberazione della regione tirolese dalle società finanziarie bavaresi che ne sfruttavano le miniere e la sua riorganizzazione in senso comunistico e repubblicano.

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Lettera di Dolcino e Margherita ai valsusini in lotta

Questa misteriosa lettera è apparsa nei giorni caldi della lotta contro l'Alta Velocità in Val di Susa. Con essa la voce di Dolcino e Margherita è tornata a farsi viva dove uomini e donne hanno alzato la testa e si sono fatti comunità in lotta per difendere il proprio futuro e quello della montagna che li ospita.

Prima lettera di Dolcino e Margherita ai valsusini in lotta  

Cari valligiani ribelli,

è con uno slancio del cuore che abbiamo deciso di scrivervi. Da secoli ci aggiriamo, stanchi e obliqui, sopra i fatti del mondo, assistendo ad uno spettacolo avvilente e angoscioso: montagne sventrate dall'arroganza del danaro, vallate affogate nel cemento, fiumi color della fanga; e, soprattutto, genti rassegnate e chine. Se il dolore è più forte nel veder devastate zone a noi care, terre di comunanza, rifugio e resistenza, come la Val di Ledro, la Val Sabbia o il monte Rubello (che la toponomastica asservita chiama oggi S. Bernardo), nel mondo degli interessi meschini siamo sempre stati stranieri, mentre ci siamo sentiti a casa nostra ovunque la natura prospera rigogliosa e selvaggia e l'uomo vive in armonia con la terra che gli è madre, fratello del suo simile.

Ci è capitato di rompere il nostro silenzio, scrivendo di tanto in tanto a uomini e donne dal cuore puro e dal braccio fermo per incoraggiarli nella battaglia per la propria libertà, ma l'astuzia della Storia (dei potenti) ha sempre fatto sparire queste nostre lettere. Sul finire del secolo apertosi con la morte sul rogo del nostro fratello Segalello, scrivemmo ai Lollardi inglesi e, nella Pasqua del 1420, agli Adamiti, che predicavano in Boemia le dottrine dei Fratelli del Libero Spirito e della Libera Intelligenza. Scrivemmo a Thomas Muntzer e a Michael Gaismair durante quelle rivolte in cui, nella prima metà del Cinquecento, il "pover'uomo comune" fece rivivere lo spirito millenario della fratellanza contro i soprusi della toga, della tunica e dell'uniforme. Rivolte in cui la libertà si intrecciava con la difesa dei saperi e degli usi collettivi. Alla nostra epoca, sapete, c'erano parole simili per indicare la base delle comunità umane, per suggerire un certo modo di stare insieme. In Valsesia si chiamavano "vicinìe", sull'Appennino "comunaglie", sull'Altopiano di Asiago "fradelanze", ma rinviavano tutte ad un'esperienza condivisa del mondo: la povertà. Pensate che ci fu un periodo -noi avevamo da tempo abbandonato questo mondo che bisogna abbandonare– in cui anche la parola repubblica (la "cosa di tutti") aveva un suono dolce e promettente, non ancora falsato da un potere accentratore e tiranno. Con quale gioia, allora, vi abbiamo sentiti parlare e ridere della "Libera Repubblica di Venaus"! Con quale gioia abbiamo udito dei ragazzi valsusini urlare ai gendarmi "a Venaus abbiamo abolito il denaro"! Sapete, il nostro motto, per cui ancora oggi ci ricordano, era "tutte le cose sono di tutti".

Abbiamo scritto, dicevamo, finché ci sono state congiure di uomini liberi contro l'imperio e il danaro, finché c'è stato qualcuno a cui scrivere. Abbiamo scritto al "capitano" Jonathan Swing e al "generale" Ned Ludd, affidando i nostri messaggi alla nebbia delle campagne e dei borghi inglesi sconvolti dalle prime aggressioni industriali; poi agli operai russi nel 1905, ai contadini spagnoli nel 1936 e ancora durante quella Resistenza in cui molti avrebbero davvero voluto far guerra ai Palazzi. Avevamo, per di più, in quest'ultimo caso, una ragione personale, se ci si perdona l'umana debolezza. Erano stati i fascisti, nel 1927, a bombardare sul Rubello l'obelisco che i socialisti avevano eretto nel 1907 in memoria di Dolcino (Margherita è stata scoperta dalla storia dei maschi solo in seguito). Era più di un tributo storico: proprio sul Rubello si erano infatti rifugiati i sovversivi in fuga dalle persecuzioni per il fatti di Milano del 1898…

Insomma, sono passati i decenni. Da allora quel "formicaio di uomini soli" che ancora chiamate società ci ha tolto ogni gusto per la parola. La passione che forza le catene della scrittura ci è tuttavia tornata vedendo quegli stessi sentieri partigiani ripercorsi da donne, uomini e bambini ostili ad un treno carico di sventure e difeso da mercenari in uniforme. Il 31 ottobre al Seghino e l'8 dicembre a Venaus eravamo con voi, valligiani fieri e testardi. Ancora una volta, sulle montagne.

Un tal ministro vi ha definito "sfaccendati", qualcun altro "montagnini". Le epoche passano, le menzogne restano. Noi fummo accusati di aver fondato una setta fra genti di montagna "rude, credulona, ignorante". Credere a ciò che si vede, si sente, si vive invece che alle sirene dei cantori dell'Avvenire, non è forse questo, oggi come ieri, il peggior crimine di lesa maestà? Noi fummo bruciati vivi perché volevamo la felicità su questa terra, e non in un lontano aldilà. Per questo la "grande meretrice rivestita di porpora", alleata del potere temporale, ci dichiarò eretici. Eppure, noi e voi sappiamo che perdere ogni rapporto sensibile con i propri simili, con la propria storia e con la propria terra è da sempre il modo migliore per finire con l'abbeverarsi alla fonte di tutte le fandonie. Diffidate sempre dei valori che non hanno piedi ben piantati per terra. I montanari che ci ospitarono e ci difesero contro le persecuzioni scatenate da Clemente V e dai signori locali non sapevano che farsene di sistemi di misura estranei al loro sapere. Dieci soldi, cento ettari, due ore erano criteri astratti di un mondo astratto e crudele. Per loro un pascolo lo si misurava in base a quante bestie ci potevano mangiare, le distanze in base ai giorni di cammino necessari per percorrerle, i raccolti in base ai cicli della luna. La semplicità della loro vita, la povertà come esperienza non mediata del mondo, ci fece accogliere come fratelli, perché il nostro cristianesimo si fondeva con le loro esigenze più profonde. Quell'incontro non cambiò solo loro, ma anche e soprattutto noi. Dal 1300 in poi ci siamo sempre spostati per fuggire le attenzioni moleste dei nostri inquisitori, vivendo pacificamente nell'attività manuale e nella predicazione. Fu sempre la povera gente ad ospitarci. A Cimego, nelle valli del Chiese, fu un fabbro, Alberto, fratello apostolico anch'egli da diverso tempo, ad aprirci la porta di casa e della fucina. A Gattinara, in Valsesia, fu un contadino, Milano Sola (che i nostri fratelli trentini ripagarono insegnando alle genti di lì la coltivazione della vite). Nelle loro comunità ci trovammo sempre tra uguali, poveri tra i poveri e poi ribelli tra i ribelli. I signorotti locali, che ci spalancarono le corti per arruolarci nelle loro sanguinose beghe, furono sempre pronti a venderci. In montagna, invece, i "rudi, i creduloni e gli ignoranti" vendettero cara la propria pelle per difendere noi, foresti portatori di grattacapi. Le nostre ispirazioni e la loro vita collettiva si incontrarono: fu la folgore. Con noi c'erano molti che si erano uniti nel viaggio dalle valli del Chiese alla Valsesia, passando sui monti di Brescia, Bergamo, Como e Milano. Fiorino, Giacomino, Oprandino, Longino, Federico, Catarina… tanti fratelli e sorelle spinti dall'esempio di una vita più semplice e più libera, di una comunità aperta a tutti, uomini e donne, sposati e nubili, vecchi e bambini. Una comunità in cui la donna era libera, custode del rapporto con la natura, la prima a saltar sui precipizi. Con quale gioia, allora, abbiamo visto le donne in prima fila nella vostra lotta, cuore pulsante dei presìdi e segnalatrici di tempesta!

La vita in montagna ci cambiò, dicevamo. Non avevamo ma pensato, prima di arrivare nel Vercellese, di prendere le armi contro le persecuzioni della Chiesa e dei feudatari. Furono i montanari, conoscitori delle rocce e abili con l'arco, a insegnarci a resistere. Noi avevamo solo illuminato alcune ragioni di una rivolta che loro covavano e praticavano da secoli. E come li ha ripagati la Storia (dei potenti), questi montanari generosi e caparbi? Con il massacro prima e la menzogna poi. Alla furia dei suoi mercenari seguì la ferocia perbene dei suoi scribi, dei suoi cronachisti, dei suoi commentatori. Per spezzare quell'amoroso legame, quella carnalità celeste che univa la nostra dottrina e le genti di montagna sono arrivati ad inventarsi le Leghe popolari valsesiane contro di noi. Aumentando a dismisura il nostro numero (più di quattromila laddove eravamo appena qualche centinaio), ci hanno sottratto sulla carta l'appoggio popolare. Ma avremmo mai potuto noi resistere più di tre anni in zone tanto dure e inospitali, fra "nevi altissime, vie inesplorate e luoghi impervi", senza la complicità dei loro abitanti? Veramente il potere avrebbe inviato un corpo specializzato di balestrieri da Genova per sconfiggere chi, come noi, con l'arco non era certo un portento? Tutto ciò non vi ricorda qualcosa, cari valsusini? Non hanno forse cercato, gli odierni Clemente V, di far credere che dietro la vostra lotta c'era solo un pugno di anarchici, sovversivi, "terroristi"? Ma se così fosse avrebbero davvero mandato le loro truppe, ancora una volta, fin da Genova?

La fermezza con cui avete respinto queste odiose e patetiche macchinazioni intese a dividervi, la caotica armonia con cui le vostre esigenze di lotta si sono incrociate con le idee e i sogni di tanti venuti da ogni parte d'Italia – ecco per noi una gioiosa vendetta della storia degli oppressi contro le menzogne degli oppressori. Come sbavavano dalla brama di spingervi a creare Leghe valsusine contro i foresti sobillatori! Sobillatrice, invece, è diventata l'intera valle. Sarà ancora "dura", come non smettete di ripetere (e quando un motto di spirito, lanciato in una notte fredda avara di legna secca, si diffonde così velocemente, al riparo dalle gazzette e dalle televisioni, significa che il suo messaggio è davvero universale), finché la vostra avventura collettiva è una promessa di libertà…

Finora vi hanno colpito da destra. Aspettatevi ora le nerbate da sinistra.

I nostri più accaniti inquisitori, come sapete, furono sempre i Minori, cioè i francescani diventati ordine istituzionale. Si richiamavano a Francesco ma giustificavano una Chiesa ricca e potente. Si chiamavano fratelli, ma odiavano la fratellanza. Loro fecero bruciare il buon Segalello nel luglio del 1300, lui che non si portava seco nemmeno il pane che non consumava sul posto, perché già quella la considerava accumulazione; lui che aveva regalato tutti i suoi beni a ladri e giocatori, per pubblico disprezzo della ricchezza; lui che vedeva nelle merci un ostacolo ad un'esperienza non mediata del mondo. Furono i francescani a bruciare la moglie di fra Alberto il fabbro con altri due fratelli; a processare e punire decine di "dolcini" fino alla fine del Trecento; a far cucire sui loro abiti un marchio di infamia (non vi ricorda niente?). Ancora oggi i più acerrimi nemici dell'emancipazione sono quelli che se ne riempiono la bocca. Provengono dal movimento operaio, per questo sono così abili nell'asservire i lavoratori. Si chiamano tra loro "compagni", come i nostri inquisitori si chiamavano "fratelli". Ma quanti di questi "compagni", nel breve far d'un secolo, hanno venduto e represso chi voleva liberarsi assieme agli altri oppressi? Al punto che la stessa parola "compagno" – che un tempo indicava l'altro con cui spezzare il pane o con cui fare un pezzo di cammino – è oggi fonte di diffidenza e di amarezza, legata com'è a una sequela di tristi disillusioni…

Tra questi "compagni", i più vicini al potere (come, all'epoca, i nostri domenicani), mercanti in un mondo di mercanti, hanno già detto da che parte stanno: contro di voi. Statene certi: i "compagni" Minori avranno il ruolo più sottile di spingervi a trattare e a democraticamente desistere. La loro sarà una repressione lodativa.

Mentre planano sulla vostra valle gli avvoltoi della politica, con i loro specialisti in "democrazia partecipativa", venditori di palliativi di fronte a un sistema che stanno portando al collasso ecologico e sociale, abili estensori di programmi per farvi partecipare al vostro imbrigliamento, è necessario – permetteteci il consiglio fraterno – che comprendiate appieno quello che avete già fatto.

Avete cacciato manipoli di tecnici e schiere di agenti, avete creato un villaggio tra una barricata e l'altra, avete portato più cibo di quanto potevate mangiarne e più grappa di quella necessaria a scaldarvi il cuore. Avete sbalordito non solo gli amministratori, ma anche i comitati di lotta. Avete ravvivato quel movimento storico che ha sempre spinto la coscienza pratica più in là dei discorsi e della teoria. Avete detto "NO" al nemico, riversando i vostri "SI" nei rapporti sociali, nei desideri, nell'arte della falegnameria e del blocco stradale. Come in tutte le esperienze collettive che spezzano l'ordine della passività, le vostre forme organizzative sono in costante divenire. D'altronde, che modelli proporvi? La democrazia diretta, i Consigli operai, la Comune? Sarà la lotta a suggerirveli, come suggerì ai lavoratori del ventesimo secolo la consapevolezza che la delega irresponsabile (ai dirigenti, agli esperti, ai portavoce) andava sostituita con il mandato imperativo e revocabile in ogni istante da parte delle assemblee; che i delegati, insomma, non dovevano essere permanenti né, tanto meno, stipendiati. Non a caso la pratica dell'autorganizzazione è nata prima delle teorie su di essa. Il motivo è semplice. La qualità della partecipazione di tutti alle decisioni comuni è strettamente collegata alla capacità di dire "NO". Senza lotta, infatti, non esiste partecipazione di sorta, ma solo la possibilità di accettare decisioni già prese altrove. Inoltre, come avete provato direttamente, decidere in prima persona non è soltanto più efficace, ma anche più appassionante. Ci state prendendo gusto, si vede: assemblee affollate, dibattiti accesi e franchi, pensionati in trasferta per le manifestazioni, una ritrovata socialità, dopo anni passati nell'isolamento, ciascuno a perdere la vita per guadagnarsela. Non avete bisogno, credeteci, di formulare chissà quali "proposte politiche": l'innalzamento del piacere di vivere è da sempre il criterio più affidabile, la sola proposta che risulti inaccettabile in questo mondo al rovescio.

Dalla Parete Calva al monte Rubello, dai piccoli villaggi alle vette innevate, noi abbiamo resistito così a lungo perché ciò che ci legava era un sogno e un grande sentimento: la complicità che si rivela agli umani quando mettono in gioco se stessi e il proprio futuro. In quei momenti la comunanza con i propri simili rompe le gabbie del Tempo (questa "invenzione degli uomini che non sanno amare", come abbiamo letto di recente in un vostro grazioso libercolo), fa dialogare gli uomini d'oggi con i morti, i vivi e i nascituri, spinge le passioni attraverso le epoche, con balzi di tigre. Un piccolo esempio. Far risuonare un allarme collettivo per segnalare un pericolo è una pratica montanara che si perde nella notte dei tempi. Così, dopo le brutali e ignobili cariche dei gendarmi, il 6 dicembre a Venaus – non s'era ancora levato il sole – si sono udite le campane e una sirena: la memoria sotterranea riannodava all'improvviso fili secolari…

La complicità, cari valligiani, è un sentimento sublime. Tornassimo indietro, rifaremmo ciò che abbiamo fatto, fin sopra un carro o sopra un torrente, presi di nuovo a far di noi stessi fiamma. L'affetto di tanti fratelli e di tante sorelle è ancora qui al nostro fianco, settecento anni dopo. Ma la complicità autentica è rara. Diffidate da chi non dissolve nelle comuni battaglie le proprie appartenenza di bottega e di parrocchia, lesto nel rivendicar meriti e abile nel vender santini. Diffidate di chi, accorso fra di voi, pretende odiar l'odioso Treno ma nulla dice, o fa, contro un mondo di macchine e di baiocchi: lisciar il pelo ed essere solidali sono cose affatto diverse, come il seguito non mancherà di mostrare.

Un goriziano d'altri tempi, che nell'animo come nelle vallate cercava sempre i sentieri scoscesi, scrisse: "Meglio non veder dove si va che andar soltanto dove si vede". Non abbiate paura. Se le mosse del nemico segneranno le vostre occasioni, sarà la libertà a suggerirvi il cammino.

Fidatevi solo di lei, e tutto andrà per il meglio.

da nessun luogo, febbraio 2006

 

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La stregoneria in Valsusa e dintorni


Massimo Centini
(Torino 1955), laureato in Antropologia culturale, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino. Collabora con musei e altri enti italiani ed esteri; si occupa, in particolare, delle tematiche connesse al mito e alla religione. Insegna Antropologia culturale all’Università Popolare di Torino.


Tra i suoi innumerevoli saggi, ne citiamo alcuni connessi all’argomento:

Streghe, roghi e diavoli. I processi di stregoneria in Piemonte, L’arciere, Cuneo 1995.

Le schiave di Diana. Stregoneria e sciamanismo tra superstizione e demonizzazione, Genova 1994.

Le streghe nel mondo, De Vecchi, Milano 2002.

Le stregoneria, Xenia, Milano.

Il sapiente del bosco. Il mito dell’Uomo Selvatico nelle Alpi, Xenia, Milano 1989.

L’Uomo Selvaggio, antropologia di un mito della montagna, Priuli & Verlucca, Ivrea 2000.

Le bestie del diavolo. Gli animali e la stregoneria tra fonti storiche e folklore, Milano 1998.


  

L'intervento di Massimo Centini si terrà
venerdì 31 agosto alle ore 21:00.


Quella che riportiamo qui di seguito è la
Premessa al recente libro di Massimo Centini:
La stregoneria in Valle di Susa e dintorni.
Un viaggio tra storia e tradizione
, Susalibri 2006.
 
 
 

Quel complesso e problematico periodo storico in cui parte dell’Europa occidentale cristiana fu attraversata dal fenomeno noto come “caccia alle streghe”, ha lasciato tracce concrete anche in Valle di Susa. Tracce che spesso non sono chiare e nitide come vorremmo, ma si polverizzano all’interno del tessuto sociale e in alcuni casi svaniscono nelle trame della storia che assume caratteristiche tipiche della leggenda.
La caccia alle streghe è parte di un periodo storico che è stato facile preda del mito e della leggenda, assumendo connotazioni che in alcuni casi rendono problematica la ricostruzione di fatti e vicende di un tempo attraversato dalla grande paura del diavolo, con tutti i risvolti sociologici e culturali che tale paura poteva determinare. In fondo, basta pensare a quante tradizioni, luoghi comuni e credenze circolano in Valle di Susa, ancora oggi, intorno all’immagine della strega: miti che spesso hanno completamente trasfigurato la dimensione storica di fatti concretamente ancorati alla realtà.
L'impegno filologico, rigoroso e imprescindibile, deve comunque essere sollecitato dalle ipotesi, dalle intuizioni, dai messaggi criptici, anche dai paradossi, che quando sono smontati  dalla scienza comunque offrono qualche opportunità per battere nuove strade di ricerca e per affondi critici più incisivi.
Infatti, come osservato da Marc Bloch, ci sono “lavori che resterebbero perennemente sul tavolo se si volesse ad ogni costo evitarvi, non solo le lacune impreviste, ma anche quelle che si prevedono senza possibilità di evitarle” (1).
Davanti a questa constatazione riaffiora una vecchia domanda: è possibile fare la storia della stregoneria, o si può fare solo la storia del concetto di stregoneria? Di fatto la storia della caccia alle streghe e dei suoi residui folklorici?
Chiarisce Franco Cardini: “ammesso che il concetto di residuo sia a sua volta sotto il profilo antropologico-storico plausibile, e che non sia invece l’esisto di un pregiudizio evoluzionistico-deterministico, cosa che io personalmente propendo a ritenere. In altri termini, ritengo che solo il corto circuito tra una cultura religiosa tradizionalmente antimagica come il cristianesimo, la maturazione del razionalismo teologico-filosofico tomistico (e non la caduta in qualche irrazionale) e l’insorgere della crisi europea tre-seicentesca abbiano potuto determinare lo sviluppo dell’immagine della malefica, nel senso a questa parola attribuito da Sprenger e da Kramer e divenuto paradigmatico” (2).
L’area valsusina, dove era molto forte la lotta contro le correnti eretiche, come peraltro nelle valli confinanti e del Delfinato, fu teatro di una guerra di religione in cui anche la stregoneria, in qualche modo, venne coinvolta.
Va infatti osservato che questi due ambiti della dissidenza culturale, in alcuni casi finirono per intersecarsi e confondersi, dando forma e sostanza ad una universo eterogeneo, con peculiarità molteplici in cui a dominare era spesso l’irrazionalità.
Chi si trova davanti ad un tema culturale come la caccia alle streghe, non può non sentire il fastidio pungente che corre sotto la pelle e scaturisce, spesso, dalla nostra virtuale impossibilità di verificare dei dati e di raggiungere una definitiva  sistemazione del fenomeno in questione.
Ma questo è il prezzo che deve pagare chi sceglie di affrontare dei temi irti di pericoli ideologici e, di conseguenza, facile preda di luoghi comuni e di consuetudini interpretative.
Realisticamente, il ricercatore non può mai dirsi completamente indenne dai condizionamenti culturali e ideologici: le sue valutazioni dovrebbero provenire da un attenta osservazione dei fenomeni analizzati e svincolati dal peso delle credenze. Ma le opinioni sono spesso il prodotto dell'incontro-scontro tra valutazioni e credenze, in cui la parte effettiva e razionale si trova a dover convivere con suggestioni e con un modus operandi facilmente travisabile nella sua prima fase di approccio, quando cioè opera ancora a livello di esplorazione conoscitiva. 
Sono sempre da considerare magistrali i metodi proposti dalla ricerca storica di autori come Le Roy Ladurie, Ginzburg, Duby, Cipolla, Dovies e altri, che hanno fatto del modello “microstorico” un esempio da seguire: esempio che, per quanto riguarda la storia della caccia alle streghe in Valle di Susa, ci pare possa essere adottato con profitto. Ci sono inoltre alcuni studi finalizzati all’analisi di singoli casi relativi al territorio alpino qui analizzato, condotti con rigore e apparsi spesso in riviste e monografie di carattere locale.
Sul versante del mito della strega non mancano raccolte di leggende e pubblicazioni, che naturalmente non possono essere considerate utili per il tipo di analisi qui condotta.
Tra i primi tentativi di fornire una ricostruzione storica obiettiva dei fenomeni di stregoneria  caratterizzanti, anche, l’area valsusina, va ricordato quello di F. Gabotto, Roghi e vendette. Contributo alla storia della dissidenza religiosa in Piemonte prima della Riforma (1898), accanto al quale va posto un altro fondamentale contributo dello studioso piemontese: Valdesi, catari e streghe in Piemonte (1900). Utili indicazioni provengono anche da C. Dionisotti, Storia della magistratura piemontese (1881) e da  G. Biscaro, Inquisitori ed eretici lombardi (1922).
Accanto a questi contributi in qualche modo “classici” (se pur datati), che hanno tracciato le linee guida per lo studio della caccia alle streghe in Piemonte, fornendo indicazioni importanti anche sulla Valle di Susa, va posto il fondamentale studio di G.G. Merlo, Eretici e inquisitori nella società piemontese del trecento (1977) che costituisce un punto di riferimento importante, irrinunciabile.
Un tentativo di sistematizzazione il tema delle streghe in Valle di Susa è stato condotto da Michele Ruggiero ormai quasi quarant’anni fa su “Segusium”: tentativo encomiabile, in cui però il legame strega storica-masca risulta ancora dominante e destinato ad appesantire la valutazione concreta dei fatti. Ciò è infatti chiaramente dimostrato dalle fonti utilizzate dall’autore (3).
Da parte nostra tenderemo a porre bene in evidenza la dicotomia tra la stregoneria della storia e quella che è frutto della leggenda: tra le povere donne spesso condannate a morte poiché vittime di una cultura alla ricerca di capri espiatori e la masca vi è una differenza abissale.
Nel caso ci si rivolga alla leggenda, è indispensabile partire da fonti raccolte sul campo, o comunque fare riferimento a quelle testimonianze che risultano diffuse nel tempo e di conseguenza, ci sia consentito, “storicizzate”. Utili anche i riferimenti toponomastici e il patrimonio di informazioni proveniente dagli studi di linguistica.
Per quanto riguarda questo volume, il lettore si troverà davanti a materiali storici, almeno per la gran parte del testo. Ogni capitolo affronta un tema o un fatto relativo alla stregoneria: i primi contestualizzano l’argomento in generale, quindi i successivi analizzano alcuni casi valsusini con i necessari approfondimenti di carattere storico-antropologico. Infatti il libro persegue sostanzialmente l’impostazione antropologica, privilegiando l’analisi degli aspetti culturali su quelli eminentemente storici.
Sono anche state considerate le evidenti relazioni tra eresia e stregoneria, relazioni importanti, soprattutto per le loro implicazioni di carattere sociologico e culturale, prima di ogni altro legame sul piano direttamente teologico, o legato al diritto canonico.
La parte finale dedica alcuni capitoli agli aspetti mitici della stregoneria, quelli rimasti impigliati nel folklore e attraverso i quali ha assunto una propria fisionomia le figura della masca che “fa la fisica”.
Nell’insieme una raccolta di testimonianze e occasioni di approfondimento intorno ad un tema certamente problematico e inquietante. Una base sulla quale costruire future ricerche che possano contribuire a definire sempre meglio la problematica figura della strega e quella di chi, per alcuni secoli, continuò a credere nei suoi misteriosi e diabolici poteri. 


NOTE 

1) M. Bloch, I re taumaturghi, Torino 1977, pag. LXVI.
2) F. Cardini, Le radici della stregoneria, Rimini 2000, pagg. 7-8.
3) M. Ruggiero, Streghe e diavoli in Val di Susa in “Segusium”, settembre 1968, Anno V. n. 5, pagg. 18-25. L’articolo è accompagnato da una “Nota della Redazione”, che ha il ruolo di assegnare una maggiore sostanza storica allo scritto di Ruggiero.

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Davide Lazzaretti, L’uomo del mistero

David Lazzaretti, il “profeta contadino” assassinato dai carabinieri nel 1978, è una figura emblematica di una cultura delle classi subalterne in cui le istanze di uguaglianza e giustizia sociale si intrecciano e si fondono con un’ansia di redenzione messianica e millenaristica. Il movimento da lui costituito – di cui a tutt’oggi sopravvivono dei seguaci – costituisce l’ultima eresia popolare italiana.
Qui di seguito una sua sintetica ricostruzione a cura di Gianni Repetto (autore di L’uomo del mistero. Guida pratica e sintetica ai luoghi, alla vita e alle opere di David Lazzaretti, profeta dell’Amiata).
L'intervento di Gianni Repetto – accompagnato dalla proiezione di un breve documentario – è previsto per domenica 2 settembre alle ore 10:30.
 

DAVID LAZZARETTI,
IL PROFETA DELL’AMIATA

 

Il movimento religioso di David Lazzaretti è stato studiato nei suoi centovent’anni di esistenza da schiere di letterati, di psichiatri e di pubblicisti che lo hanno interpretato da diverse angolature e con i più disparati metodi di approccio. Si spazia, nella bibliografia lazzarettiana, dalla fredda classificazione clinica nell’ambito di una patologia individuale e sociale alla lettura dell’episodio in chiave semplicemente folkloristica, per giungere, nel secondo dopoguerra, all’inserimento del fenomeno in una prospettiva socio – politica con caratteristiche rivoluzionarie. Ma in genere questi autori non hanno saputo cogliere l’originalità del movimento, nonostante siano parecchi gli aspetti che lo rendono interessante: dagli inizi “confessionali” nel 1868, agli sviluppi successivi in senso sempre più riformatore e comunitario, fino all’epilogo cruento, dopo la condanna del Sant’Uffizio, come inevitabile conseguenza della predicazione messianica del profeta.

La vicenda si colloca in un periodo storico particolarmente delicato della storia italiana: siamo negli anni immediatamente successivi all’unificazione del paese, proprio a ridosso della contrastata soluzione della questione romana che segna una frattura profonda tra stato unitario e curia papale. Il profeta amiatino sviluppa il suo pensiero e la sua passione religiosa all’interno di questo clima di scontro e inizialmente, nonostante sia un fervente patriota e abbia combattuto come volontario nell’esercito piemontese nel ’59, subisce l’influenza del revanscismo clericale di quegli anni. Ma ben presto si sottrae alla tutela strumentale della Chiesa ed elabora un percorso autonomo di palingenesi teologica e sociale. Ed è proprio questo atteggiamento millenaristico a segnare il suo destino: pian piano la gerarchia ecclesiastica prende le distanze e lo Stato può procedere alla repressione.


L’ambiente umano è quello della montagna amiatina in cui la figura sociale predominante è quella del piccolo proprietario terriero. Il tipo di conduzione dei terreni, a seminativo nudo o incolto per la pastorizia, fornisce redditi precari che se non fossero integrati con attività complementari (emigrazione temporanea nelle pianure come braccianti avventizi o nelle città per svolgere mestieri vari) non consentirebbero il sostentamento per più di tre o quattro mesi all’anno. Un contesto sociale quindi di frustrazione, estremamente favorevole al sorgere di istanze utopiche di rinnovamento sociale e di giustizia.
 

David Lazzaretti nacque ad Arcidosso il 6 novembre 1834. Il padre faceva il barrocciaio e David, dopo aver appreso a leggere e a scrivere dall’arciprete del paese, cominciò a fare il mestiere paterno. A quattordici anni gli accadde un fatto che egli ritenne in seguito decisivo per la sua vita: il 25 aprile del 1848, durante un viaggio con il barroccio, ebbe una visione nella quale un frate gli predisse che la sua vita sarebbe stata un mistero. Inoltre, i frequenti contatti con gente diversa contribuirono a stimolare in lui la formazione di una cultura autodidatta tipicamente popolare, basata sulle Sacre Scritture, sulle vite dei santi, sui poemi cavallereschi e, ai livelli più alti, su Dante e su Tasso. A ventidue anni si sposò con Carola Minucci, una sua compaesana, e dal loro matrimonio nacquero cinque figli dei quali soltanto tre sopravvissero.
 

Il 25 aprile 1868, a distanza di vent’anni dalla prima, David ebbe un’altra visione nella quale il frate gli riconfermò il mistero della sua vita e lo invitò a recarsi dal Papa a rivelargli quanto aveva visto. Nel settembre dello stesso anno David andò a Roma da Pio IX, dal quale si aspettava chissà quale accoglienza e investitura; ma deluso dalle sue parole di convenienza, si ritirò tra i ruderi di un convento a Montorio Romano. Qui rimase per circa tre mesi, facendo vita da penitente, assistito da un frate tedesco dedito all’ascetismo.
 

L’incredibile mutamento di vita e i discorsi di intonazione profetica che David pronunciò al suo ritorno al paese suscitarono un certo fermento tra la popolazione per cui il clero locale, pur mantenendo sempre le distanze, cercò di coinvolgerlo nelle cerimonie religiose per sfruttarne il carisma ed evitare eventuali deviazioni dottrinali. E in effetti da questi primi discorsi emerge che David voleva inizialmente farsi promotore solo di una generica moralizzazione dei costumi, senza ancora accennare a una sua missione e a una vera e propria riforma della Chiesa. Ben presto, però, disgustato dalle manovre che avvenivano alle sue spalle, si rifugiò a Monte Labro, nel podere di un amico. Qui, nel luglio 1869, dopo alcuni periodi di ritiro spirituale tra cui rilevante quello all’isola di Montecristo, David costruì sul picco del monte, aiutato dai primi seguaci, una torre a forma di tronco di cono che doveva essere nei suoi progetti il primo edificio e simbolo della nuova Sion. In seguito furono costruiti, su un ripiano sottostante, anche un eremo e una cappella con i quali David poneva le basi concrete per l’istituzione di un ordine monastico laico tra i suoi seguaci: il Pio Istituto degli Eremiti Penitenzieri e Penitenti. Contemporaneamente fondò anche un’istituzione di impronta sociale per far fronte alle necessità della pratica cristiana quotidiana: la Santa Lega della Fratellanza Cristiana. E proprio in seguito alla fondazione di quest’ultima venne arrestato per la prima volta con l’accusa di frode continuata, da cui venne prosciolto dopo alcuni mesi di domicilio coatto a Scansano.
 

David tornò a Monte Labro ancora più convinto della necessità di fondare un istituto che andasse incontro alle esigenze terrene e materiali dei suoi seguaci. Fondò così la “Società delle Famiglie Cristiane”, che fu un vero e proprio esperimento a carattere collettivistico: fu costituita infatti una società universale di beni, di opere e di guadagni, nella quale ogni socio doveva attendere al proprio lavoro quotidiano assieme alla famiglia. A questo punto molti possidenti, che fino ad allora si erano dimostrati entusiasti delle sue idee, impauriti dai possibili sviluppi sociali del nuovo istituto si allontanarono da lui.
 

Nel frattempo David, ripreso dall’ansia di completamento divino che lo tormentava, decise di recarsi in Francia sostenendo che là Iddio lo chiamava, stimolato forse dalla fantasia delle sue origini transalpine. Nel maggio 1873, dopo una breve permanenza a Torino nella casa di Don Bosco, giunse alla Gran Certosa di Grenoble, dove condusse, dal maggio al settembre 1873, una vita di rigida penitenza e scrisse il libro “I Celesti Fiori”, nel quale cominciò ad enunciare gradualmente la propria dottrina lasciandosi alle spalle la vecchia ortodossia. Il libro contiene infatti la conferma dottrinale dell’investitura ricevuta nella grotta di Montorio Romano: la Madonna riconosce in David il vero nuovo salvatore, “colui per la cui pietà sarà usata pietà e misericordia per altri sette mesi, pure potrebbero essere anni, dall’irata giustizia dell’Altissimo”.
 

Al suo rientro a Monte Labro, nel novembre 1873, David venne arrestato per la seconda volta con l’accusa di truffa continuata, di vagabondaggio e di cospirazione politica, ma venne assolto dopo il processo d’appello. Recuperata la libertà, si trovò a dover fronteggiare il dissesto finanziario dell’istituto da lui fondato, per cui fu costretto a scioglierlo e a tenere in piedi soltanto l’iniziativa del lavoro collettivo.
 

Ma David a Monte Labro non riusciva a trovare pace e allora nell’ottobre 1875 si trasferì con tutta la famiglia di nuovo in Francia, ospite stavolta di un magistrato francese, Leone du Vachat, un nostalgico legittimista. In casa di quest’uomo David ebbe modo di condurre vita da penitente e di dedicarsi alla stesura di nuove opere: sono di questo periodo il “Manifesto ai popoli e ai principi cristiani” e, soprattutto, “La mia lotta con Dio”, l’opera lazzarettiana più complessa dal punto di vista dottrinale. In essa l’autore sostiene di essere stato rapito in Dio per 33 giorni e di aver avuto “sovrumane rivelazioni” con l’ordine di comunicarle ai popoli. Da questo dialogo è scaturito un “patto di nuova alleanza”, l’unico che potrà evitare l’ira divina nei confronti dell’umanità. E proprio lui, David, Cristo nella seconda venuta, ha il compito di promulgare la legge del diritto, di annientare le schiere degli empi e di instaurare su questa terra una società di santi, il regno dei giurisdavidici.
 

Il contenuto del libro fu ritenuto eretico dalla Curia Romana e proprio da esso prese il via il processo inquisitorio che condannò tutti gli scritti del profeta. Quando poi, infatti, alla notizia della morte di Pio IX, David inviò a Roma i tre editti al “Codice della Riforma dello Spirito Santo”, con i quali annunciava l’avvento dell’era della riforma dello Spirito Santo e la fine della successione dei sommi pontefici romani, fu convocato immediatamente dal tribunale del Sant’Uffizio. Nel marzo 1878, dopo una breve sosta a Monte Labro durante la quale si manifestò come nuovo Cristo ai suoi seguaci, David si recò a Roma dove, nel convento dei Santi Giovanni e Paolo, fu sottoposto a processo. Il risultato fu un atto di ossequiente sottomissione alla Chiesa e un invito ai suoi seguaci a imitarlo. Depresso e sfiduciato, rientrò in Francia “ad attendere i risultati dei divini disegni e voleri”. Ma ai primi di luglio tornò a Monte Labro tra la sua gente, accolto da un gran concorso di folla. Il 15 agosto celebrò con i suoi seguaci la festa dell’Assunta e il mattino del 18 scese dal monte alla testa di un’imponente processione diretta ai santuari di Arcidosso e del vicino paese di Casteldelpiano con il preciso intento di manifestarsi come Cristo duce e giudice. All’ingresso di Arcidosso la processione venne fermata dalla forza pubblica che sparò sulla folla colpendo a morte Lazzaretti e altre tre persone. David morì dopo una lenta agonia la sera stessa e i suoi seguaci furono arrestati e condotti prima nelle carceri di Arcidosso e poi in quelle di Santa Fiora, di Scansano, di Grosseto, di Livorno, di Firenze e infine di Siena dove si svolse il processo a loro carico. Il 9 novembre 1879 i giudici della Corte d’Assise di Siena pronunciarono la sentenza di assoluzione dall’accusa di “aver commesso atti diretti a rovesciare il governo e a mutarne la forma, nonché a muovere la guerra civile ed a portare la devastazione e il saccheggio in un Comune dello Stato”.

   

Gianni Repetto è nato a Lerma (Alessandria) nel 1952. Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Genova nel 1976 e attualmente è insegnante di materie letterarie nella scuola media. È autore di romanzi, racconti e poesie. Su David Lazzaretti ha scritto: L’uomo del mistero. Guida pratica e sintetica ai luoghi, alla vita e alle opere di David Lazzaretti, profeta dell’Amiata, Arcidosso 2001.


 

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Introduzione all’eresia dei “Fratelli Apostolici”

Tra la seconda metà del secolo XIII e la prima metà del XIV si sviluppa in Italia il movimento dei Fratelli Apostolici, la cui radicalità teorica e pratica mina alle fondamenta l’ordine non solo religioso, ma anche sociale e politico. Pauperismo radicale e egualitarismo comunistico, nomadismo e azione rivoluzionaria, spiritualismo mistico e libertà sessuale, si fondono in una comunità itinerante che profetizza il ritorno alla semplicità della chiesa cristiana primitiva. Qui di seguito, in estrema sintesi, la loro storia.  

 

Breve storia degli Apostolici
Segalello, Dolcino e Margherita

Nel 1260 circa, l’umile Gherardino Segalello si presenta al convento dei frati minori (francescani) di Parma, chiedendo di esservi ammesso. Vistosi respinto, vende la sua piccola casa e il suo piccolo orto, getta i soldi così ricavati ai poveri (proprio come aveva fatto San Francesco), e inizia una vita nuova basata su pochi, essenziali concetti: l’imitazione di Cristo (“seguire nudi il Cristo nudo”), il rifiuto di ogni possesso e accumulazione (quindi la povertà assoluta) e dunque le elemosine in una esistenza itinerante, nella convinzione che solo una tale realtà esistenziale potesse interpretare nel giusto modo il messaggio del Vangelo. È il rifiuto, messo in pratica, della via adottata dalla Chiesa di Roma (possesso, ricchezza, potere). È l’inizio del movimento dei “Fratelli Apostolici”. 
Cominciano ad affluire seguaci di Gherardino (il quale tuttavia rifiuterà sempre di essere considerato “capo”, in omaggio a una concezione integralmente comunitaria e antigerarchica), e via via il consenso popolare cresce, tanto che le fila degli Apostolici si ingrossano e moltissimi, uomini e donne, aderiscono a questo movimento. Gherardino, nella sua semplicità, è un grande comunicatore: coloro che aderiscono al movimento vengono privati dei vestiti e indossano una tunica bianca (l’unica cosa che possiedono), rifiutano persino, dell’elemosina, il pane superfluo che non può essere consumato immediatamente, egli stesso si presenta sulla pubblica piazza attaccato al seno di una donna come fosse un neonato lattante (a simboleggiare la rinascita dello spirito cristiano in una nuova éra di purezza totale), fa predicare in chiesa persino i bambini. Insomma, il contenuto del messaggio degli Apostolici (che si chiamano anche “minimi” per segnare la differenza con i “minori” francescani i quali si erano integrati, in fondo tradendo l’insegnamento del loro fondatore Francesco d’Assisi, nei meccanismi potere-ricchezza della chiesa di Roma), e le forme della predicazione ottengono via via un enorme successo e adesione popolare, al punto che la gente abbandona i riti cattolici per affluire in massa alle “prediche” degli Apostolici. Gherardino invia anche diversi Apostolici a portare il proprio messaggio in terre lontane.
Questo enorme successo (riconosciuto dalle più autorevoli fonti storiografiche cattoliche dell’epoca) non può più essere tollerato dalla chiesa romana: il mite Gherardino (pacifista integrale) viene imprigionato, alcuni apostolici vengono messi al rogo, e infine, nel 1300, Gherardino stesso viene arso vivo sulla pubblica piazza, nel nome del Signore, nell’anno del Primo Giubileo e del perdono universale. Ma il rogo di Gherardino Segalello, anziché spegnere il movimento apostolico, per uno di quegli strani “scherzi” della storia, segna invece l’inizio di una vicenda del tutto originale, e di enorme portata, nel medioevo italiano.
Dolcino, nativo di Prato Sesia (Novara), nel 1300 è un giovane discepolo che assiste al rogo di Gherardo, tra i molti che erano venuti in Emilia anche da lontano per partecipare al movimento. Dopo la morte del fondatore, Dolcino in breve diviene di fatto il leader carismatico, riorganizza le fila disperse dalla repressione e indirizza agli Apostolici perseguitati una prima lettera. Nello stesso anno, il 1300, il nucleo “dirigente”, sotto la pressione dell’Inquisizione, si sposta prima nel Bolognese e poi in Trentino (qui accolti da un fervente gruppo di amici e compagni, tra cui il fabbro Alberto da Cimego). È qui che Dolcino incontra, per non più separarsene, la bellissima Margherita, che abbandona le sue nobili origini per aderire al movimento. Dolcino predica contro la corruzione della Chiesa Romana, per un Cristianesimo fuori dalle istituzioni e senza obbedienze gerarchiche. La sua comunità è testimonianza provocatoria di una società di liberi e uguali, fondata sull’aiuto reciproco e la comunanza dei beni.
Il Vescovo di Trento, preoccupato dalla minaccia che gli Apostolici rappresentano per l’ordine feudale, scatena anche lì la repressione. Tre apostolici, tra i quali la moglie di Alberto, vengono arsi sul rogo. Così, nel 1303/1304, Dolcino, con il gruppo degli Apostolici più fedeli (uomini, donne, vecchi e bambini), riprende il lungo viaggio che li porterà fino in Valsesia, attraverso le montagne lombarde (presso Chiavenna vi è tuttora un paese che si chiama Campodolcino). La Valsesia è la terra d’origine di Dolcino, qui egli conta amici, ed è naturale che, per salvarsi, egli pensi a questa meta.La Valsesia era da molto tempo in lotta aperta prima contro i grandi feudatari (conti di Biandrate), poi contro i comuni della pianura (Novara e Vercelli). Quando il gruppo degli Apostolici giunge a Gattinara e Serravalle, centri nella parte bassa della valle, e qui ricomincia la propria predicazione per una chiesa e una società nuove, l’accoglienza popolare è entusiastica e gli eretici fraternizzano con i montanari valsesiani in rivolta. I vescovi di Vercelli e Novara, in accordo con il papa, vedendo come l’avvento degli apostolici fa da catalizzatore per le istanze autonomiste delle popolazioni valsesiane, bandiscono allora una vera e propria crociata per debellare questi “figli del diavolo”. Viene reclutato un vero e proprio esercito professionale (anche i balestrieri genovesi, abilissimi nel tiro) per farla finita una volta per tutte. Gli Apostolici questa volta, uniti ai valsesiani ribelli, decidono di difendersi. Nel 1304 inizia dunque una vera e propria guerra di guerriglia tra un esercito cristiano e cristiani che credono in una chiesa diversa e alternativa. Si susseguono scontri e battaglie, nelle quali Dolcino dà anche prova di notevole intelligenza militare. I ribelli si spingono in alto nella valle e, sul monte chiamato Parete Calva, che è ideale per la difesa, si installano con l’appoggio dei montanari fondando una vera e propria “comune” eretica, in attesa di quello sbocco finale che Dolcino, uomo colto, teologo e filosofo della storia, ritiene imminente. I crociati assediano la Parete Calva, ove sono asserragliati i ribelli (alcune fonti parlano di 4000 persone, altre di 1400), e si susseguono scontri sanguinosi. I ribelli valsesiani e gli eretici compiono azioni di guerriglia improvvise: calano contro i nemici accampati in valle; assaltano le chiese, considerate tempi dei farisei nemici del Vangelo e collaborazionisti degli invasori; colpiscono le case dei magistrati del vescovo-conte e del potere cittadino; sequestrano il podestà di Varallo per ottenerne il riscatto. Ma l’inverno, per i rivoltosi, è terribile. Essi vivono in condizioni ormai disperate; finché, in un difficile passaggio tra metri di neve (ancora oggi quel luogo si chiama “Varco della Monaca”, in riferimento a Margherita), riescono a devallare portandosi nel Biellese. Qui essi si fortificano sul Monte da allora chiamato Monte dei Ribelli, o Rubello.Ma i crociati si riorganizzano e procedono a un nuovo assedio. Nel dicembre 1306 inizia l’ultimo inverno per i ribelli, allo stremo e del tutto isolati dall’accerchiamento dei crociati. L’assalto finale provoca una carneficina: circa 800 ribelli sono trucidati sul posto, mentre Dolcino, Margherita e Longino Cattaneo (luogotenente di Dolcino) sono catturati vivi. Margherita e Longino verranno posti al rogo in Biella. Margherita rifiuterà di abiurare, respingerà le proposte di matrimonio di alcuni nobili locali, che l’avrebbero salvata dal rogo, e sceglierà di restare fedele al suo ideale e al suo compagno fino in fondo. Dolcino prima dovrà assistere al supplizio della sua donna e poi, a Vercelli, verrà condotto al rogo su di un carro. Durante il tragitto viene torturato con tenaglie ardenti, ma tutti i commentatori sono concordi nell’attribuirgli un coraggio straordinario: non si lamenta mai, solo si stringe nelle spalle quando gli viene amputato il naso e trae un sospiro quando viene evirato. Infine, nel 1307, anche per lui la “giustizia” di Dio significa il rogo.
Si concludono così, tra quelle fiamme, tre anni di resistenza armata nel nome di Cristo, ma altri dolciniani un po’ da ogni parte continueranno a esistere (se ne hanno notizie fino al 1374).
Non solo. Dolcino, Margherita e gli Apostolici diverranno simboli di libertà ed emancipazione fino ai giorni nostri, e la memoria popolare non li dimenticherà. Dalla metà del XIX secolo, Dolcino è rivendicato come “apostolo del Gesù socialista” dal movimento operaio e socialista della zona; e proprio sul Monte Rubello troveranno rifugio nel 1898 i fuggiaschi dalla repressione poliziesca seguita ai tumulti di Milano e all’eccidio di Bava Beccaris. Nel 1907 poi, nel sesto centenario del martirio, vi saranno celebrazioni di enorme rilievo con l’edificazione di un obelisco alto 12 metri proprio sui luoghi della loro ultima resistenza (obelisco poi abbattuto dai fascisti nel 1927). Nel 1974 un cippo viene installato nel luogo dove era l’obelisco. Tuttora, ogni anno, la seconda domenica di settembre, il Centro studi dolciniani organizza la “Festa di Fra Dolcino” al cippo sul Monte Massaro. 

Il fatto stesso che oggi in Valsusa, nel settimo centenario del rogo di Dolcino, nell’ambito della lotta popolare contro l’Alta Velocità, si senta il bisogno di trovarsi per parlare del suo messaggio, per confrontarsi e saperne di più, per riscoprire quel suo sogno, semplice e rivoluzionario, di uguaglianza e condivisione, dimostra che la sua battaglia ha ancora molto da dirci e che “dopo morti sono più vivi di prima”.

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Vener. 31 agosto, Sabato 1, Domenica 2 settembre – Presidio di Venaus (Valsusa – To)

Nel 1307, dopo lunga resistenza, si chiude la battaglia degli eretici apostolici: Dolcino è trascinato in catene, le carni dilaniate, arso vivo sulla pubblica via, affinché tutti potessero vedere la sorte di chi aveva osato sfidare l’ordine del mondo. Eppur Dolcino vive ancora, proprio nelle lotte contro quel mondo che non ha smesso di seminare guerre, devastazioni e miseria. Vive ancora nel sogno, tanto semplice quanto rivoluzionario, di un mondo a misura degli uomini che lo abitano e in armonia con la natura che li circonda. 
 

NEL SETTECENTENARIO
DEL ROGO DI FRA DOLCINO
NEI LUOGHI DELLA RESISTENZA NO TAV


Tre giorni di iniziative per parlare di
streghe e banditi, eretici e contadini insorti e
del filo che annoda le lotte di ieri a quelle di oggi.

PROGRAMMA DELL’INIZIATIVA

Venerdì 31 agosto

 
ore 21:00
La stregoneria in Valle di Susa e dintorni
Relatore: Massimo Centini (antropologo, professore di Antropologia culturale all’Università Popolare di Torino, autore del libro La stregoneria in Valle di Susa e dintorni, edizioni Susalibri 2006)

Sabato 1 settembre

ore 15:30
L’eresia di Fra Dolcino, tra
messianesimo egualitario e resistenza montanara
Relatore: Gustavo Buratti (fondatore e coordinatore del Centro Studi Dolciniani, Biella. Autore di innumerevoli saggi e articoli in materia di storia ereticale)

La guerra dei contadini in Germania e
Thomas Müntzer (1525)

Relatore: Roberto Prato (storico, insegnante, Biella)

L’eresia delle femmine ribelli.
Donne delle foreste e delle montagne

Relatrice: Michela Zucca (antropologa, specializzata in antropologia alpina e storia della stregoneria. Fondatrice della rete delle donne delle Alpi, lavora al Centro di ecologia alpina, Trento)

ore 20:30
Cena
Musica dal vivo e danze
con suonatori delle vallate alpine 

 
 

Domenica 2 settembre 
 
ore 10:30
Davide Lazzaretti (†1878),
il profeta del Monte Amiata

Relatore: Gianni Repetto (scrittore, insegnante, Alessandria. Autore del libro L’uomo del mistero. Guida pratica e sintetica ai luoghi, alla vita e alle opere di David Lazzaretti, profeta dell’Amiata, Arcidosso 2001) 
 
ore 15:30
Assemblea:
Attualità delle lotte ereticali
e prospettive delle lotte contro le nocività oggi
 

 
ore 21:30
Proiezione del film-documentario:
Dolcino, ribelle in Cristo

Presidio NoTav di Venaus, strada statale 25, Val di Susa (To)

Venerdì 31 agosto, Sabato 1 e Domenica 2 settembre 2007


L'iniziativa si terrà anche in caso di maltempo.
Possibilità di campeggio libero.


Questo blog verrà periodicamente aggiornato e integrato con nuovi materiali fino all'inizio della tre giorni. Chi volesse mettersi in contatto per collaborare, suggerire materiali da pubblicare, ricevere informazioni sull'iniziativa, può scrivere alla mail: danielepepino@libero.it  (tel. 329-1849726)

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